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Il Team Manager: figura tanto conosciuta, quanto misteriosa. Abbiamo chiesto a Livio Suppo di raccontarci i segreti di questo affascinantissimo mestiere, protagonista del motorsport.

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Terza puntata della rubrica FT Classes e questa volta ci troviamo a fare due chiacchiere su uno dei mestieri più ambiti, ma anche più complessi nel mondo dei motori: il team manager.

Una carriera invidiabile all’interno del motorsport, più precisamente nel Motomondiale, Livio Suppo ha tanti aneddoti e trucchi del mestiere da raccontare quando si parla di team management, essendo stato a capo della gestione di vari team, su tutti Ducati e Honda. Non è un personaggio che ha bisogno di tante presentazioni, ma se proprio non avete capito di chi si stia parlando, vi basti sapere che grazie a lui abbiamo avuto Casey Stoner e Marc Marquez in top team MotoGP e che l’unico Mondiale nella bacheca dei trofei Ducati porta anche la sua firma.


FUORITRAIETTORIA – Iniziamo dalle basi: chi è un team manager?

LIVIO SUPPO – Innanzitutto, bisogna chiarire un po’ cosa si intende con “team manager” perché spesso questi termini vengono utilizzati in maniera inappropriata. In Formula 1, team manager e team principal sono due ruoli ben diversi, mentre in MotoGP spesso si accomunano nella stessa persona. Il team principal, che nell’ambito motociclistico può essere anche team owner, è un mestiere che comprende anche la raccolta fondi per far correre la squadra, mentre il team manager si occupa dell’organizzazione del team. Nelle moto, oggi queste due posizioni, nella maggior parte dei casi, sono coperte da una sola persona; però ad esempio Yamaha fa eccezione, con Lin Jarvis nel ruolo di capo e Massimo Meregalli team manager: con questo esempio e questi due nomi possiamo renderci conto della differenza.

FT – Quali sono, quindi, le mansioni del team manager?

LS – Parlando della MotoGP, il team manager è colui che ha la responsabilità della squadra, le mansioni vanno dalla scelta del team, che è fondamentale ovviamente, alla sua gestione. Per quanto riguarda i piloti, se non sei anche il proprietario del team, c’è tutta la fase di discussione e a volte “convincimento” con la dirigenza della squadra, e poi ci sono le negoziazioni dei contratti sia con i piloti che con gli sponsor.

FT – E questo è il lavoro che noi spettatori non vediamo perché è al di fuori del weekend di gara…

LS – Si, c’è tutta la fase di ricerca e negoziazione. Si scegli un pilota su cui voler puntare e la strategia da adottare, che cambia in base al fatto che possa essere un pilota giovane o più esperto: bisogna capire come convincerlo, magari ci sono le riunioni di notte nel segreto del paddock (potrebbe star correndo per una squadra avversaria!), gli incontri con manager e legali per definire i dettagli dei contratti… tutte cose che rimangono fuori dai riflettori come è giusto e normale che sia.

FT – Invece per quanto riguarda tutto il resto del team: quali sono le conoscenze che bisogna avere per gestire i vari reparti?

LS – Non c’è una regola unica, ci sono TM che vengono da esperienze totalmente diverse, ex tecnici, ex piloti o chi, come me, viene da economia e commercio e un passato aziendale nel marketing. Io ho esordito nel mondo dei motori con il Team Benetton, che era un team un po’ anomalo poiché la parte tecnica era affidata alla HRC e schieravamo Melandri in 125 e Ukawa in 250: il mio ruolo era diverso da un TM normale, avevo il compito di gestire due squadre distinte e separate che fuori venivano viste come una sola e con un nome così importante come Benetton in quegli anni. Questo è il mio caso particolare, ma solitamente sono persone che sono già nell’ambiente: pensiamo a Stefano Domenicali che ha iniziato a lavorare in Ferrari, ne è diventato team manager e poi team principal, quindi si parla di persone che hanno esperienza nel settore.

FT – Secondo te quale è il background migliore? C’è una figura che è più portata di un’altra per fare questo mestiere?

LS – No, secondo me è difficile generalizzare e dipende da persona a persona. Direi che una cosa che serve senza dubbio è una grandissima passione, sono mestieri totalizzanti, si viaggia tantissimo e c’è da dire che diventa una vita impegnativa dal punto di vista professionale.

FT – Hai iniziato la tua carriera con un team “anomalo”, l’hai conclusa con due big come Ducati e Honda: fra team privato e team ufficiale cosa cambia, qual è l’approccio che si deve avere?

LS – In realtà ho quasi sempre lavorato per team ufficiali, quando eravamo in Benetton ci appoggiavamo a strutture separate dell’HRC (che in quegli anni aveva Doohan in 500 e Okada in 250 senza sponsor, fino al 1996). L’unico team privato in cui ho lavorato è Matteoni o negli anni di Ducati e Honda ho dovuto gestire anche il rapporto fra la casa madre e i team satelliti, ad esempio quando con Gresini abbiamo gestito Simoncelli che era sotto contratto Honda. Lì ho dovuto gestire i rapporti con la Casa madre che, non solo aveva il pilota, ma forniva anche la moto ufficiale ad una squadra nostra cliente. Le squadre private, rispetto a quando ho iniziato io negli anni 90, hanno ora un compito molto più difficile e se non fosse per Dorna che da qualche anno a questa parte ha aumentato di molto il contributo che dà a queste squadre, sarebbe pressoché impossibile per loro rimanere a galla. Allora, quando ho iniziato io c’erano più title sponsor grossi anche nelle squadre satelliti (per esempio Gresini con Telefonica o Sito Pons con la Camel) perché le Case che correvano erano poche e se qualcuno fosse voluto entrare nel motomondiale avrebbe dovuto per forza di cose cercare un team privato col quale lavorare.
Loro hanno un mestiere sicuramente più difficile, Lucio Cecchinello, per esempio, è una storia molto bella: un ex pilota che poi si è messo a fare il manager del suo stesso team continuando a correre e poi, poco per volta, è cresciuto e ormai da diversi anni ha una grandissima e bellissima realtà nella MotoGP. Lui è uno che lavora 24 ore al giorno, che si inventa di tutto per trovare degli sponsor e ha un mestiere ancora più impegnativo e totalizzante di quello del team principal per una squadra.

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FT – Invece la vittoria di un mondiale come cambia le cose all’interno del team?

LS – Eh, domanda difficile. Dal punto di vista pratico non cambia niente, dal punto di vista emotivo, io ricordo sempre con grandissimo piacere la prima vittoria per me, quella del 2007 con Ducati, che ad oggi è ancora l’unica vittoria di un Mondiale per Ducati. È stata una grandissima soddisfazione perché è attivata dopo soli cinque anni dall’esordio in MotoGp e, quando nel 2000 abbiamo deciso di andare a correre nel Mondiale, la scelta era stata molto difficile perché l’azienda non era ancora così grande e non faceva parte del gruppo Volkswagen come adesso, è stata una scelta rischiosa anche dal punto di vista finanziario, ma una sfida che però Claudio Domenicali e Filippo Preziosi erano convinti di poter e voler affrontare. È stata una scelta che ha portato anche i suoi frutti perché Ducati, che già era un’azienda prestigiosa con un’ottima reputazione, da quando corre in MotoGP e ha dimostrato di essere tecnicamente al passo coi i colossi giapponesi, credo abbia aumentato notevolmente il valore del marchio.
Tornando alla domanda iniziale, lì ci ha cambiato la vita, dandoci la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta, mentre è stato totalmente diverso il primo Titolo vinto con Casey Stoner in Honda nel 2011. La squadra non vinceva un titolo dal 2006: dopo il Mondiale 2003 di Rossi, poi passato in Yamaha, la Honda aveva vinto solo il campionato con Hayden, pochissimo per loro. Infatti, Nakamoto mi disse che dovevamo letteralmente risvegliare la HRC che si era un po’ addormentata e devo dire che mi sentivo quasi obbligato a vincere un Mondiale con una squadra che dal vincere sempre era passata a non vincere più. L’opposto della situazione in Ducati, in cui era stato un mezzo miracolo vincere dopo soli cinque anni. Due approcci completamente diversi, due soddisfazioni grandissime, ma dal punto di vista pratico l’anno successivo si è di nuovo tutti a 0 punti e bisogna ricominciare a ricostruire la stagione. Che non è mai scontato, infatti né nel 2008, né nel 2012 abbiamo replicato.

FT – Dalle gioie, vorrei passare alla situazioni meno piacevoli. Prendiamo episodi come l’incidente di Simoncelli a Sepang 2011 o fatti come quelli di Sepang 2015, che non possono essere paragonati al primo episodio, ma che comunque sconvolgono l’ambiente. Dopo situazioni così difficili, come si tengono le redini della squadra, soprattutto nel primo caso?

LS – Nel caso di una disgrazia… beh nel corso della mia carriera, oltre a quella di Marco che ho vissuto in maniera particolare perché era proprio un nostro pilota, ne ho vissute varie da Kato, a Tomizawa, a Salom. Nel paddock ci si conosce tutti e purtroppo ogni volta è un qualcosa che ti fa riflettere molto sul tipo di mestiere che facevamo, o almeno per me era così. Alla fine, se ci pensi, uno va in giro per il mondo tralasciando le sue cose per far correre in tondo delle persone che rischiano la vita! Se uno la vede così è demenziale, ma ovviamente poi ci sono la passione e il fatto che, per quanto sia pericoloso, è uno sport che fa chi davvero vuole fare, vivendo di adrenalina e sfide continue. Te ne devi fare una ragione.
Poi invece ci sono problemi non drammatici come questi, ma comunque difficili da gestire, come Sepang 2015 o Aragon 2013, in cui si trovano in ballo due piloti della stessa squadra: Marc [n.d.r. Marquez] non volendo, urtò Dani [n.d.r. Pedrosa] gli tagliò il cavetto del traction control e da lì cadde, nel dopo gara famiglia e team dei due piloti non è che fossero così felici. In qualche modo bisogna riuscire a gestire questi problemi ricordandosi che i problemi veri sono altri e che i piloti si sono divertiti in gara. Io penso che alla fine i piloti che si divertono di più, e sia Rossi che Marquez ne sono un ottimo esempio, sono quelli che vivono le cose in maniera molto leggera e con il piacere di fare quello che si fa. Invece ci sono altri piloti con cui ho lavorato, primo fra tutti Stoner, che lo viveva sentendo molto la pressione. Più uno riesce a capire che sono tutti in quell’ambiente, dal primo dei meccanici al top rider sono tutti dei privilegiati perché lavorano in un ambiente che ti piace, ti permette di girare il mondo e vivere di emozioni che in altri mestieri che non ci sono.

FT – Parlando un attimo delle frange di piloti ed entourage che si possono scontrare, quando ci sono due galli in un pollaio come nel caso di Rossi, Lorenzo e il “muro”, come si fa a tenere sotto controllo una bomba a orologeria?

LS – A me personalmente, due piloti molto forti contemporaneamente mi è capitato di averli quando c’erano Marc Marquez e Daniel Pedrosa in HRC, cosa anche sorprendente perché nel 2013 Marc era un esordiente e nessuno pensava che avrebbe potuto vincere il Mondiale già al primo anno. Ho avuto la fortuna di trovare due persone intelligenti che, nonostante qualche momento di frizione come l’episodio che ho appena raccontato, hanno sempre avuto grandissima stima e rispetto reciproco sia in pista che durante gli eventi di pubbliche relazioni, anche quando si viaggiava insieme dopo il campionato, erano sempre lì a ridere e scherzare. Mi ritengo molto fortunato da questo punto di vista, non c’è mai stata la rivalità accesa vista fra Vale e Jorge. Ma bisogna anche pensare che comunque era difficilissimo essere compagno di squadra di Rossi a quei tempi perché, non solo era molto forte, ma anche se vinceva Jorge, dietro, nel paddock, la folla che trovava era lì vestita di giallo ad aspettare Valentino. Sei il Campione del Mondo in carica, hai vinto la gara, ma sono tutti lì per il tuo compagno di squadra: sicuramente non aiuta per avere un clima disteso. Molto poi dipende da quanto sono professionisti loro, quella convivenza è stata molto enfatizzata anche dai giornalisti… alla fine il muro c’era sì, ma perché Vale aveva preso le Bridgestone e Jorge era rimasto con Michelin, a parità di gomma non avrebbero mai avuto quel muro. Che poi questo “muro”, in realtà, esiste in tutte le squadre, dato che ogni pilota ha il suo entourage, dai meccanici, agli addetti stampa, agli ingegneri: sono poche le persone che lavorano per entrambi.

FT – E parlando di entourage, è più difficile gestire il pilota o il suo team?

LS – Anche qua non si può generalizzare, ci sono piloti che hanno un carattere difficile, mentre ce ne sono altri serenessimi che hanno gente attorno che può essere negativa. Senza fare nomi, c’era un pilota molto giovane che aveva il papà di cui si lamentava con il team. Mentre ci sono papà, come quello di Loris [Capirossi], di Marc o di Nicky [Hayden] che sono carinissimi, sono sempre in pista, ma non ficcano mai il naso negli affari del figlio se non per aiutarli a livello personale.

FT – Visto che hai nominato Loris, la domanda è d’obbligo… come si “licenzia” un pilota?

LS – In maniera diversa da come scrive Pernat sui suoi libri!! È sempre difficile dire ad un pilota che non lo vuoi più, nel caso di Loris la situazione era diversa da come è stata raccontata. Parlando in generale, è difficile, ma è anche vero che se si arriva a voler interrompere il rapporto significa che si è un po’ esaurito, che non si crede più nel pilota e/o nella squadra e, quindi, diventa anche inutile andare avanti. Prendiamo l’esempio di Dovizioso lo scorso anno: era palese che lui da tempo pensava che la squadra avrebbe dovuto fare determinate cose che non venivano fatte, mentre Ducati pensava che la moto avrebbe potuto vincere, ma Dovi non era stato in grado di farlo. A quel punto diventa inevitabile separarsi. Spesso e volentieri, poi, un pilota trova qualcuno che offre di più o una moto più competitiva e, semplicemente, si sposta. Poi, dal punto di vista giornalistico, si tende sempre a pendere dalla parte del pilota che da quella della Casa, non verrà mai detto che il pilota “ha tradito” la squadra. Poi se c’è Carletto a raccontare le cose, peggio ancora! ride

FT – E a proposito dei media che, spesso, ricamano attorno alle storie, come ci si rapporta per evitare queste cose? E c’è differenza fra stampa italiana e stampa estera?

LS – Allora, la stampa italiana e quella spagnola sono quelle più presenti in pista e hanno più piloti rappresentati, quindi sono un mondo a parte rispetto alla stampa di altri Paesi perché la confidenza, i segretini e queste cose qui che si possono captare nel paddock, ovviamente, sono più facili da reperire se parli con un pilota o un membro del team della tua stessa nazionalità. Gestire una squadra giapponese, in confronto ad una europea, da questo punto di vista è più facile: la Honda può far qualcosa senza che nessuno lo sappia, le Casa europee, invece, sono più “a rischio”, se scappa una confidenza o una voce.
Sicuramente la gestione dei media è una delle cose più importanti che un Team Manager fa perché spesso e volentieri i giornalisti, come dicevo, tendono a difendere a spada tratta un pilota, facendo fatica ad ascoltare le ragioni della squadra. Di conseguenza il TM deve anche essere in grado di spiegare bene come stanno le cose: da fuori sembra tutto facile, all’interno, però, bisogna fare i conti con il budget e un’altra miriade di cose che rendono irrealizzabile qualcosa che per i giornalisti è scontato fare.

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FT – Come fa un TM a fare la differenza? Qual è il plus che bisogna avere per fare bene questo lavoro?

LS – Direi la lungimiranza, la capacità di vedere e capire che ci siano possibilità che gli altri non notano, sia un pilota, una gomma diversa dagli altri, uno sponsor… insomma, cercare di avere intuizioni e idee che fanno la differenza. La gestione è importante, ma puoi avere una gestione perfetta con un’idea di base sbagliata e poi non funziona. Non è solo legata a questo mestiere, ma un po’ a tutti, è ciò che fa la differenza nella carriera di una persona.

FT – E, parlando di te, se ci fosse l’occasione passeresti in Formula 1 come Brivio?

LS – Sinceramente no. L’unica cosa che forse mi piacerebbe fare per soddisfazione personale e per amore del brand sarebbe andare in Ferrari. Però qualunque altra cosa sinceramente no, poi la Formula 1 la conosco poco, ma a quanto ne so è un mondo più difficile rispetto a quello della MotoGP. Forse se avessi iniziato lì da giovane sarebbe stato diverso, ma ora come ora non so se avrei tutta questa voglia.

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FT – C’è, invece, qualcosa che consiglieresti al te di qualche anno fa, quando hai iniziato questa carriera? Qualcosa che cambieresti o qualcosa che diresti ad un giovane che ora si trova a fare questo mestiere?

LS – Eh, ci dovrei pensare un attimino… Sicuramente, come tutti, di sbagli ne ho fatti e io lo sbaglio più grosso che abbia fatto è stato quello di non firmare con Casey Stoner nel 2005 per il 2006. Io penso che Casey con la moto e le gomme del 2006 avrebbe vinto il Titolo all’esordio a mani basse, dico sempre che potendo tornare indietro a quel momento, proverei a convincere Claudio [Domenicali] e Filippo [Preziosi] per Casey e non per Gibernau; di errori se ne fanno, ma è anche vero che poi cresci, impari e non li ripeti in seguito. A parte questo, della mia carriera posso ritenermi soddisfatto, anche del fatto di essermene andato ad un età giusta per lasciare spazio ai più giovani. È un mestiere che ha ritmi molto impegnativi, se inizia a scenderti un po’ la voglia di girare e di stare sempre in ballo, rischi che non lo fai più al massimo. Quindi mi sono contento di aver smesso a 53 anni e di aver intrapreso questa attività delle biciclette elettriche, anche perché il mercato è esploso in maniera mostruosa da quando siamo partiti ad oggi…

FT – La lungimiranza…!

LS – …eh, sì! Comunque, sì, sono contento di quello che sono riuscito a fare in quel settore e ho voglia di riuscire a fare qualcosa di bello in un settore diverso, piuttosto che tornare in un settore dove ho vissuto tanti anni e rifare cose che ho già fatto.

FT – C’è qualcuno, anche del passato, che ritieni sia o sia stato il miglior team manager o team principal, sia in MotoGP che in Formula 1?

LS – In Formula 1, sicuramente Enzo Ferrari. Parliamo di uno che non ha chiuso l’affare con la Ford perché non avrebbe avuto il controllo sulle corse, cosa che poi gli permise Agnelli. Uno che faceva delle macchine di serie, ora riconosciute come status in tutto il mondo, solo perché era obbligato dal fatto che aveva bisogno di soldi per correre. Oltre a lui, che è emblematico, in Formula 1 ci sono tanti esempi, da Chapman della Lotus a Williams.
Nelle moto è un po’ diverso perché da tantissimi anni, o almeno quelli che ricordo io, è stato soprattutto fatto da case giapponesi e quindi, spesso e volentieri, si trovava un ex pilota. Io credo che due personalità da prendere ad esempio siano Fausto Gresini e Lucio Cecchinello, entrambi dall’essere piloti sono riusciti a diventare due ottimi imprenditori, cosa non scontata. Finché tu guidi e vai forte in moto, puoi anche permetterti di dire qualche stupidaggine, ma quando ti metti in proprio con un team, la tua notorietà come pilota ti serve magari a trovare sponsor, ma poi c’è tutta la parte di gestione della squadra.

FT – Ultimissima domanda: c’è qualche mito che vuoi sfatare?

LS – Miti da sfatare direi di no, in realtà. Anzi una cosa personale la vorrei dire per rispetto ad Adriana [Stoner] e alla mia famiglia: ci sono questi cretini che continuano a pensare che ci fosse una storia fra me ed Adriana e che, soprattutto, continuino a scriverlo è una cosa che davvero dà fastidio.

Se avete altre curiosità, vi lasciamo i 46 minuti di intervista che ci aveva rilasciato lo scorso anno in live e orgogliosamente conservati nei nostri archivi: trovate il video qui.





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Maria Grazia Spinelli

The author Maria Grazia Spinelli

Classe 1994, molisana. Da piccola vedevo mio padre seguire la Formula 1 e mi chiedevo cosa lo appassionasse così tanto, poi ho avuto un colpo di fulmine con le due ruote in un pomeriggio d'estate ed ho capito. Qui vi racconto la MotoGP e il Mondiale Superbike.