Quando si parla di motorsport, ma anche di sport in generale, si pensa che l’unico allenamento necessario sia quello fisico. Troppo spesso ci si dimentica di quanto e come la testa, la mente, abbia un ruolo fondamentale nelle performance di un atleta. Molti sono i piloti, ma anche altri atleti estranei al motorsport, che si stanno finalmente aprendo riguardo non solo l’allenamento mentale, ma la salute mentale in generale, argomento ancora spesso considerato tabù, soprattutto nel mondo ancora troppo machista dei motori.
Si sente anche troppe volte dire che “tutti siamo un po’ psicologi”, ignorando l’importanza e il ruolo fondamentale che un professionista del settore abbia in una parte così importante e fondamentale dell’allenamento di un atleta. Abbiamo parlato di psicologia del motorsport con una professionista del settore, la Dottoressa Sara Sferratore di Psicologia del Motore, e le abbiamo chiesto di spiegarci alcuni degli aspetti più importanti del mental training.
FUORI TRAIETTORIA – Dottoressa, come mai la scelta di specializzarsi nell’ambito sportivo, in particolare del motorsport?
SARA SFERRATORE – In realtà non l’ho deciso! Sin da bambina sono sempre stata appassionata sia di psicologia che di Motorsport, due passioni che, in qualche modo, ho sempre coltivato. In maniera molto casuale e spontanea, durante il corso di psicobiologia mi sono imbattuta in una lezione in cui si parlava di adrenalina: lì ho trovato un punto di connessione tra le due cose che più mi appartenevano e mi caratterizzavano. Ho deciso quindi, quindi, di cominciare una serie di studi e di svolgere una tesi che fosse anche gratificante e appassionante per me e che mi lasciasse qualcosa che fosse… caratterizzante. Mi sono laureata in Psicologia con la tesi “La gara dell’adrenalina: dai vasi sanguigni alla pista”, per poi specializzarmi in Psicologia Clinica con lo studio “La Formula della Velocità: Adrenalina e personalità Vincente”. Ho dovuto, ovviamente, aspettare l’Esame di Stato per l’abilitazione, per poi iniziare alcuni progetti all’interno del Motorsport sia come squadra, ma anche seguendo singolarmente persone che lavorano nel mondo dei motori, dai piloti ai meccanici e ingegneri: così è nata Psicologia del Motore [ndr: trovate tutte le info qui e qui e occhio alle chicche del lunedì, non dite che non vi avevamo avvisati!].
FT – Quanto è importante e in cosa consiste il training mentale?
SS – Qui c’è da fare una premessa: ogni azione comincia con un pensiero anche se non ce ne rendiamo conto, non esiste più la visione dualistica corpo-mente. La mente fa parte del corpo, il corpo include la mente, è un organismo unico e non si possono scindere le due aree che, quindi, lavorano insieme. Molto spesso mi trovo a chiedere “Ma chi è che fa lo sport, il corpo o la mente?” e quando lo chiedo agli atleti mi rispondono sempre “la mente”. Pensateci bene però, chi è che accelera, che cos’è che pigia il pedale? Lì ci si rende conto. Questo perché, in maniera anche abbastanza inconsapevole, la maggior parte delle persone pensa che sia la mente ad avere il comando. In realtà, sono entrambe parti importanti dello sport e l’una non può lavorare senza l’altra. Ovviamente è impensabile non allenarsi fisicamente, ma è altrettanto importante allenarsi mentalmente, soprattutto ad alti livelli.
In cosa consiste il mental training dipende un po’ da come è fatta la singola persona e da ciò di cui ha bisogno in quel momento, non esiste un allenamento standardizzato equivalente per tutti. In generale, ci dovrebbe essere un allenamento costante alla concentrazione, all’attenzione, alla capacità di gestire le proprie emozioni (la rabbia, la paura, ma anche le emozioni positive), al riuscire ad andare avanti dopo l’errore, al non fossilizzarsi. Il mental training comprende diverse cose, anche, ad esempio, il rilassamento che, nonostante sembri qualcosa di puramente fisico, in realtà parte dal rilassamento mentale. Poi, ovviamente, c’è la visualizzazione.
FT – Puoi farci un esempio?
SS – Immaginiamo, per esempio, il caso di un sorpasso: io devo avere ben chiaro quello che sto facendo, devo immaginare dove sto passando, dove posso passare, quanto spazio ho, cosa proverò a fare io e cosa proverà a fare il mio avversario per difendersi; da qui si capisce come l’esercizio di immaginazione è importantissimo e andrebbe fatto in maniera mirata. Fare degli allenamenti mentali in maniera sbagliata porta a degli svantaggi: è un come andare in palestra e allenarsi da soli e poi ritrovarsi col mal di schiena perché l’esercizio è stato fatto con una postura non adeguata.
Queste sono le funzioni principali del mental training nel Motorsport, ma sono importanti anche la comunicazione, sia all’interno della squadra che con sé stessi, il problem solving, la resilienza, e tutta una serie di capacità cognitive che andrebbero allenate con una certa accortezza.
FT – Quali sono i fattori o le emozioni che un pilota può controllare con l’allenamento mentale?
SS – Mentirei se dicessi che si possono controllare le emozioni! Le emozioni non si controllano, le emozioni esistono e noi possiamo gestirle, che significa anche capire in che modo utilizzarle a proprio vantaggio. Un esempio è pensare di poter annullare la paura: tante volte ci si sente dire “vabbè ma tu non ci pensare, mettila da parte e distraiti”, in realtà quello che si va a fare è solo nascondere quella paura sotto un tappeto, ma quella rimane lì e prima o poi torna fuori, magari anche più forte di prima perché con il tempo si è alimentata.
Quello che noi possiamo fare è imparare a gestire le nostre emozioni, tra cui la rabbia che è una delle parti fondamentali nello sport. L’avversario tende spesso a farti cadere nei propri tranelli e, molto spesso, dove non arriva la fisicità dell’atleta arriva la capacità di riuscire a mandare nel panico l’altro: quindi il non saper controllare la mia rabbia può portare facilmente a cadere nelle trappole dell’avversario.
Detto questo, le emozioni in generale vengono viste come un qualcosa di quasi di negativo da dover imparare a controllare, ma in realtà non è così! Al contrario, le emozioni sono uno strumento che noi abbiamo e che possiamo sfruttare a nostro vantaggio. Per esempio, la rabbia è un’emozione attivante e in molte persone può essere utilizzata anche come un carburante aggiunto: se sappiamo in che modo utilizzarla, possiamo sfruttarla a nostro vantaggio anche per migliorare la performance.
FT – Quella che spesso si chiama “rabbia del pilota” è la “rabbia normale”?
SS – Sì, io direi di sì. La paura è paura e la rabbia è la rabbia, quindi sì la rabbia del pilota È rabbia. Innanzitutto, dipende sicuramente anche dall’attivazione che c’è in un determinato momento: parlo di una serie di ormoni che in quel momento sono in gioco per attivare in qualche modo la persona. Come dicevo prima, quello che è importante è riuscire a capire in che modo sfruttare in maniera positiva le emozioni che si provano, e non mi riferisco solo alla rabbia, ma anche ad altre come la delusione e la gioia. Quest’ultima, per esempio, può andare a impattare sulla performance in maniera negativa! Facciamo di nuovo l’esempio del sorpasso: se sono riuscito nel sorpasso e, invece di pensare a ciò che ho davanti, continuo a pensare alla manovra che ho fatto, quindi sono preso dalla mia gioia, non sono più fermo sul “qui ed ora”, ma sto pensando a un momento del passato. Nello sport deve essere tutto molto veloce, quello che ho appena fatto è passato, sia che abbia vinto o perso un punto, bisogna sempre puntare all’obiettivo futuro. Quindi in questa prospettiva anche la gioia può essere un fattore distraente: se mi fa soffermare troppo rischio di abbassare la guardia! Questo per dire che non vanno gestite solo le emozioni negative.
Con questo non voglio dire che durante la gara ci sia il tempo di pensare, razionalizzare, classificare le nostre emozioni… no, assolutamente! L’allenamento mentale serve proprio a far sì che queste funzioni avvengano in maniera automatica. Come quando si guida la macchina le prime volte e ci si ferma a pensare “adesso metto la prima, quindi schiaccio la frizione, alzo il freno…”, dopo un po’ si inizia a farlo con quella che si chiama memoria procedurale, cioè fare qualcosa senza pensarci, un automatismo. E questo è l’obiettivo ultimo dell’allenamento mentale: non pensare. In molti credono che facciamo questo percorso perché dobbiamo capire come fare, come ragionare, come pensare… no, l’obiettivo ultimo è quello di non pensare assolutamente a niente e di lasciare chi pratica lo sport con la testa libera.
FT – Ma quindi, si può “accendere e spegnere” la paura?
SS – No, la paura esiste e va affrontata. Sicuramente chi si fa questo tipo di lavoro è conscio e consapevole di quello che va a fare. È giusto che esista la paura perché le emozioni hanno una funzione vitale e se sono lì c’è un motivo. Il pilota sa dove può concedersi la paura e dove no, e soprattutto può imparare a gestirla. Non si può accendere e spegnere, però ci sono delle strategie per superarla in alcuni casi, ad esempio un pilota potrebbe vivere un momento della sua vita in cui delle paure importanti potrebbero arrivare a impedirgli di continuare con lo sport. Ci sono anche degli allenamenti “più soft” per chi non ha questo tipo di problematica che consentono di riuscire a capire quando la propria paura è comunicativa, quindi sta comunicando qualcosa in maniera funzionale alla mia esistenza, e laddove invece è una paura eccessiva… non voglio dire infondata, ma facilmente superabile. È bene fare una distinzione: la paura è qualcosa che in alcuni momenti può salvare la vita e non va demonizzata, quindi bisogna anche saper capire quando prenderla seriamente in considerazione e quando, invece, si può andare avanti.
FT – Come si torna, quindi, in pista dopo un incidente grave? Mi viene da pensare a Grosjean dopo il Bahrain o, ancora di più, a Correa dopo l’incidente in cui, oltre ai problemi fisici, ha visto anche Hubert perdere la vita.
SS – Dobbiamo partire dal presupposto che i piloti vivono in questo ambiente fin da piccoli e sono sempre a contatto con la possibilità di fare incidente. Molti hanno vissuto dei piccoli incidenti o hanno visto altri piloti coinvolti, quindi tramite quello che si chiama apprendimento vicario, hanno vissuto in qualche modo la realtà della possibilità dell’incidente. Detto questo, quello che fa la differenza nel tornare in pista è il periodo di degenza o convalescenza. Per esempio, tra le tante cose, la differenza tra Grosjean e Correa è proprio questa: il primo, per quanto sia stato coinvolto in un incidente gravissimo che avrebbe potuto avere degli esiti disastrosi, è uscito dalla macchina camminando sulle proprie gambe, è andato in ospedale a fare gli accertamenti e poi è tornato subito in pista, anche se non all’interno dell’abitacolo; quindi parliamo di una persona che è stata sempre cosciente, ha avuto delle lesioni non gravi, non ha vissuto un reale periodo di degenza e non ha avuto il tempo di percepirsi in qualche modo “malato”. Diverso è stato per Correa che è stato in coma e ha visto un amico e collega perdere la vita. L’incidente di Spa ha compromesso anche la salute fisica di Juan: ha avuto problemi alla gamba e, soprattutto, quello che ha fatto tantissima differenza è il fatto che sia stato bloccato in ospedale non sapendo se sarebbe stato in grado realmente di tornare alla sua vita così com’era in precedenza. Lui stesso ha raccontato che sono subentrate una serie di frustrazioni e, ovviamente, per lui psicologicamente è stato pesante. In generale, in questi casi subentrano frustrazione e rabbia, ma si può arrivare anche alla depressione. Si pensa che chi fa questo sport sia abituato a queste cose: è vero, si è abituati a vivere la realtà dell’incidente, ma non significa che quando ci si trova in una situazione del genere non possano subentrare delle sensazioni negative. In questi casi si può continuare l’allenamento quantomeno mentale, sia per non uscire totalmente dalla posizione sportiva, ma anche per tenere impegnata la mente. Tramite studi scientifici si è scoperto che, andando ad effettuare alcuni esercizi mentali, vengono stimolate anche le aree cerebrali che sono poi implicate nella performance fisica: in questo modo si va a facilitare anche la ripresa del corpo. È importante anche per la persona che si trova lì bloccata in un letto di ospedale dare, in qualche modo, un senso alla propria giornata, nonché una continuità con la pratica sportiva, cercando di uscire da un loop negativo e avere una sensazione di ripresa e di rinascita.
Tornando nel caso specifico di Correa, ha avuto tantissimi interventi chirurgici uno dopo l’altro, è stata diagnosticata una sindrome da stress respiratorio e i medici hanno dovuto indurre il coma, poi avevano consigliato di amputare il piede destro, una volta ripresosi ha dovuto re-imparare a camminare… insomma, ci sono state tantissime difficoltà per Correa e, quando ci sono più sfide da dover affrontare, mentalmente non è facile riprendersi.
FT – L’esperienza di un pilota influisce sulla pressione percepita? Quali sono i cambiamenti nel tempo?
SS – Sì e no, nel senso che magari dopo un po’ ci si abitua un pochino e si percepisce l’ansia in maniera diversa dalle prime gare. Molti pensano che arrivati a determinati livelli il pilota sia abituato e non abbia più ansia o pressione, ma in realtà non è così. Noi immaginiamo un po’ questi piloti come supereroi, superuomini… sì ok, però hanno sempre la loro parte umana! E comunque cresce l’esperienza, ma crescono anche le responsabilità e le aspettative e, di conseguenza, aumenta anche la pressione. Ci sono in ballo tante cose, come il fatto che magari ti possano rinnovare o meno il contratto, la competizione col compagno di squadra, ciò che pretende la squadra dal pilota… È un pensiero un po’ superficiale pensare che arrivati a un certo punto la persona sia così esperta da annullare totalmente la pressione, l’ansia, le emozioni.
FT – Parlando, invece, di fattori esterni alla pista, quanto influisce l’arrivo di un figlio?
SS – Andrebbe fatta una distinzione tra uomo e donna per una questione prettamente fisica, cioè ormonale. L’uomo ha un coinvolgimento fisico diverso perché è la donna che rimane incinta e a un certo punto della gravidanza sarà impossibilitata a praticare sport e andrà incontro a una serie di cambiamenti ormonali e fisici. Detto questo, il cambiamento è prettamente personale se la prendiamo dal punto di vista “il pilota ha poi paura perché sente la responsabilità per il figlio?”, anche se la maggior parte dei piloti ha figli e continua giustamente la propria carriera.
FT – Mi viene da pensare a Kiara Fontanesi, che è salita sul podio del WMX qualche mese dopo aver dato alla luce la sua prima bimba!
SS – Esatto, Kiara è tornata in pista subito dopo aver partorito e ora porta con sé la bimba. E aggiungerei che sono delle immagini bellissime, è bello anche che vengano sdoganati alcuni tabù, visto che fino a poco tempo fa era impensabile che una donna tornasse su una moto dopo così poco tempo. Comunque, in generale non è assolutamente un evento che va ad impattare negativamente sulla performance, come possiamo vedere a ogni nascita.
FT – Invece quanto impatta il team, quindi l’ambiente di lavoro?
SS – Ecco, il team impatta tantissimo sulla prestazione del pilota, spesso si vengono a verificare delle dinamiche non virtuose all’interno della squadra che vanno a incidere tantissimo sull’esito della performance sportiva. Comunque, va considerato che, come noi vediamo la competizione in pista tra i due compagni di squadra, così c’è competizione anche all’interno del team tra persone che magari ambiscono alla stessa posizione e vanno a creare situazioni che si ripercuotono anche sulla performance della macchina e, quindi, sull’esito finale della prestazione sportiva. È importantissimo andare a lavorare anche su queste dinamiche e devo dire che, purtroppo, è un fattore molto sottovalutato che non viene preso in considerazione quasi per niente.
FT – I media possono fare davvero danni? Mi viene da pensare alla situazione di Vettel nel 2020.
SS – Sicuramente l’ambiente circostante, il Circus, impatta anche sulle performance e che di media spesso infastidiscono i piloti. A volte lo fanno volontariamente per riuscire a ottenere una reazione dall’atleta e riuscire a ricavare una qualche informazione, soprattutto se ricercata in un determinato momento della stagione. “Fare danni” forse è eccessivo, però sicuramente, e si è visto, anche i piloti in qualche modo si fanno influenzare dall’ambiente circostante. E spesso, sembra quasi surreale dirlo, ma anche dai commenti sui social. Noi siamo sempre abituati a vederli come superuomini imperturbabili, ma in realtà non è così, anche loro riescono a farsi influenzare come comuni mortali… questo poi non è detto che abbia esito sulla performance, però comunque in qualche modo può andare a toccare dei punti della loro personalità o del loro carattere.
FT – Quindi forse forse quando Hamilton se ne esce con “siete i migliori fan al mondo” ad ogni GP non lo dice tanto per dire?
SS – Beh, Hamilton ama essere amato dal pubblico, lui tiene particolarmente a questa cosa. Oh, magari pensa davvero che in tutti i circuiti i tifosi sono i migliori, ma ha proprio bisogno in qualche modo di essere acclamato, quindi sicuramente ci gioca un po’, però sicuramente vuole quell’energia e quella carica che poi i tifosi gli danno.
FT – Qual è la sfida maggiore per uno psicologo dello sport?
SS – Quando qualcuno ti contatta ha già deciso di iniziare un percorso, quindi possiamo dire che da lì è tutta in discesa. Poi dipende dalla personalità del pilota, qualcuno ad esempio inizia il percorso però poi non riesce totalmente ad affidarsi, questo dipende dalla persona e da quanto sia disposta a mettersi in gioco. Devo dire che molte volte faccio fare degli esercizi che appaiono strani e i piloti non sanno a cosa servano, cosa siano e perché io glieli stia chiedendo: il senso è proprio quello, devono abituarsi ad un determinato comportamento, un determinato esercizio e non devono sapere cosa e perché lo stanno facendo. In quei casi ci sono piloti che si prestano e che li fanno senza discutere, si divertono e la prendono come una sfida, mentre c’è qualcun altro che non si presta se non sa il perché.
Una persona che si affida fin dall’inizio riesce a raggiungere in tempi molto brevi il risultato finale, chi invece è restia fa due passi avanti e tre indietro, ma bisogna comunque avere rispetto delle varie personalità e dei tempi.
FT – Quali sono i metodi o riti più strani che hai visto utilizzare per scacciare la tensione nel pre-gara?
SS – Di rituali pre-gara ne visti tantissimi, in realtà mi colpisce molto chi si affida alla Madonna o a Dio e inizia proprio a dialogare, ad affidarsi a queste figure. Poi si vede un po’ di tutto: c’è chi ascolta la musica, chi fa esercizi di giocoleria per la concentrazione, chi fa degli allungamenti, chi preferisce stare da solo, chi invece proprio non vuole stare da solo. C’è anche chi ha dei rituali scaramantici, qualcuno deve entrare in un certo modo nella macchina, deve indossare un determinato elastico porta fortuna, davvero ognuno ha il suo.
FT – Questi rituali si fanno anche in preallenamento?
SS – Io faccio sempre fare anche prima dell’allenamento tutti quei rituali che l’atleta fa prima della gara, in modo che si inizi ad avere già un senso di familiarità con l’operazione che va a svolgere, facendolo entrare in modalità pre-gara. Diventa un’attività così tanto ripetuta che riesce a sentirsi a proprio agio, serve a gestire l’ansia qualora ci fosse questo problema, ma è utile per la concentrazione, per un livello di sicurezza personale, cioè per sentirsi sicuri e a proprio agio. Quello della sicurezza, ad esempio, è un aspetto sottovalutato, ma in realtà è poi da lì che parte tutto perché la sicurezza personale va a impattare su ansia, concentrazione e attenzione.
FT – Al momento, secondo te, chi è il pilota più forte mentalmente in Formula 1?
SS – Parlando di Formula 1, ogni pilota ha delle caratteristiche personali in cui si contraddistingue dall’altro e ognuna di queste caratteristiche è importante. Io mi ispirata, quando scrivevo la tesi, ad Alonso, Hamilton e Verstappen, che sono tre piloti che a me personalmente piacciono tantissimo. Ho sempre ammesso di essere una grande fan di Alonso, ma penso che anche Hamilton e Verstappen siano fortissimi mentalmente. Molti, per esempio, hanno criticato Verstappen al suo esordio, ma dobbiamo considerare che lo abbiamo conosciuto in Formula 1 a 17 anni… non era neanche maggiorenne! L’abbiamo visto in piena adolescenza e molti degli eccessi a cui abbiamo assistito erano dovuti proprio a quello: attenzione, con questo io non voglio andare a giustificare determinati comportamenti, che in alcuni casi sono stati eccessivi, no assolutamente. Quello che dico, prendendo in considerazione questi tre piloti, è che si tratta di tre persone molto forti mentalmente, tra cui ce n’è una, Max, che non viene percepita come tale semplicemente perché è stato conosciuto in un periodo della sua vita che rende difficile il paragone con gli avversari più grandi: nel momento dell’adolescenza ci sono una serie di cambiamenti ormonali che vanno anche a impattare in qualche modo sulla prestazione, sempre al netto di quello che è il suo carattere.
Noi ringraziamo la Dottoressa Sferratore per questa lunga chiacchierata, sperando di aver chiarito qualche dubbio su uno degli aspetti più sottovalutati e più importanti sia dello sport, che della nostra vita di tutti i giorni. Lo/a psicologo/a non mangia e rivolgersi a lui/lei non significa essere “malati”: una chiacchierata con un esperto fa bene a tutti, non c’è nulla da vergognarsi e noi vi invitiamo a occuparvi anche della vostra salute mentale. Vogliatevi bene! ❤️