Per capire che la Dakar sia una competizione motoristica totalmente differente da tutte le altre che compongono il panorama a due e quattro ruote, diciamocelo, non è necessario consultare un esperto. Quante altre gare infatti si disputano combinando un’estenuante durata, una spaventosa lunghezza ed un terreno tanto mutevole quanto implacabile? Poche, inutile girarci troppo intorno.
Anche perché, alle sovracitate tre caratteristiche, la Dakar ne aggiunge un’altra particolarissima, il cui peso specifico nell’economia della gara è andato man mano aumentando nelle varie edizioni della corsa che si sono disputate in Sud America: l’altitudine. Senza voler infatti disturbare i picchi andini che verranno raggiunti nella seconda settimana di gara – si parla di valichi a 4.800 metri sul livello del mare -, vi basti pensare che per 5 giorni i protagonisti del Rally Raid più famoso del mondo non scenderanno mai al di sotto dei 3.000 metri di altitudine, dovendo quindi fare i conti con una rarefazione dell’aria che, unita al tipico caldo argentino ed al temutissimo fesh-fesh, complicherà non poco la vita agli equipaggi in gara.
I più colpiti dagli effetti negativi dell’altitudine, per via del maggiore sforzo fisico a cui sono chiamati rispetto ai loro colleghi che viaggeranno su mezzi a quattro ruote, saranno ovviamente i piloti delle motociclette. Che, per non farsi cogliere impreparati e per poter puntare anche solo a tagliare il traguardo, hanno trascorso gli ultimi mesi ad allenarsi proprio per far fronte a questo ostico, invisibile, implacabile avversario. “Ho dormito in una tenda da alta quota praticamente per tutto l’ultimo mese” – ha detto ad esempio il vincitore dell’edizione 2017, Sam Sunderland, a RedBull.com – “e spero che essere stato in un ambiente con una quantità di ossigeno ridotta rispetto al normale possa aiutarmi in qualche modo. L’altitudine rende tutto più faticoso, ma è uguale per tutti noi. Però mi sono preparato bene e mi sento pronto”.
Si sente pronto anche il trionfatore dell’edizione 2016 della Dakar, quel Toby Price che l’anno scorso ha dovuto alzare anzitempo bandiera bianca a causa di una frattura ad un femore occorsagli mentre tentava la rimonta alla testa della classifica. Però, a differenza di Sunderland, il centauro australiano dà un’altra motivazione alla sua capacità di far fronte all’altitudine: “E’ merito della mia pelle spessa da canguro australiano!“ – sostiene infatti uno degli alfieri dello squadrone KTM – “Ci sono piloti che si sentono davvero male, con mal di testa e nausea, ma per fortuna io non tendo ad avere questi problemi. Da qualche parte nel mio DNA ci dev’essere qualcosa che mi fa stare bene in altitudine, e per via di una trasfusione fatta dopo la frattura del femore ora ho anche un po’ di sangue boliviano in corpo: chissà, potrebbe essermi d’aiuto quest’anno!”. Ma dietro ai sorrisi ed alle battute del barbuto pilota australiano si nasconde in realtà qualcosa di più. Avendo dovuto subire appena 3 mesi fa un secondo intervento al femore infortunato nella scorsa edizione, per Price essere al via della Dakar 2018 si è trattato davvero di una corsa contro il tempo. “Mi sono allenato su bici da corsa, su bici da strada, facendo jet ski, provando qualsiasi cosa potesse tornarmi utile. Credo sinceramente di aver passato sulla bici quanto più tempo potessi, nel corso delle ultime sei settimane. Dovevo in qualche modo recuperare il tempo perduto, spero che funzioni”.
Già, perché allenarsi alla perfezione non è sufficiente per farti partire tranquillo, in una gara assurda come la Dakar. “Ho trascorso tantissime ore in palestra, in uscite in bici o a piedi o sciando sulle montagne, ma le Ande sono sempre una sfida difficilissima“ – dice infatti una delle protagoniste femminili dell’edizioni 2018 della Dakar, Laia Sanz – “Oltretutto a metterci in difficoltà ci sarà anche il caldo, che è una della cose peggiori. Trasforma alcune tappe in un vero e proprio inferno, si soffre davvero tanto. Bisogna arrivare alla Dakar nel miglior stato di forma possibile, e per far questo bisogna far ricorso anche a diete mirate“.
Nel corso della gara infatti, nonostante i bivacchi siano attrezzati per garantire un’alimentazione corretta a tutti i partecipanti, i piloti arriveranno a perdere oltre 5 kg in due settimane di gara. Eppure c’è chi, come Price, ha un’idea tutta sua di “alimentazione corretta”: “La chiamo dieta-del-cibo-che-vedi: consiste nel mangiare tutto ciò che, ad occhio, pensi possa piacerti. La cosa importante è la dimensione delle porzioni, poi quello che c’è dentro per me conta poco. Non mi interessa mangiare alimenti salutari o meno: a fine gara tanto avrò bruciato qualsiasi cosa“. E non facciamo certo fatica a credergli, visto nel corso delle due settimana ci sarà anche da fare i conti con la mancanza di sonno. Una mancanza che denuncia lo stesso Price, ma che preoccupa soprattutto un altro dei protagonisti della corsa, Antoine Meo: “Fisicamente, dormire poco è la cosa che più mi mette in difficoltà. Dormiamo davvero pochissime ore al giorno, e la mancanza di riposo inizia a farsi sentire dopo una sola settimana.”
“Sono giorni senza fine” – ha concluso infine Price – “la Dakar ti mette alla prova, cerca di abbatterti, è mentalmente e fisicamente difficilissima. Non è semplice in nessuna delle sue fasi. Non ti dà tregua, nemmeno se la implori“. Una gara spietata, dunque. E chissà che non sia proprio questo il motivo per cui tutti i piloti che vi prendono parte la trovano così irripetibilmente unica…