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Quando l’Angelo Biondo sfidò l’Inferno Verde: Stefan Bellof e il Nürburgring, 28 maggio 1983





Altopiano dell’Eifel, Germania. Non uno dei massicci più alti d’Europa, questo è certo. Più colline che montagne, coperte quasi senza soluzione di continuità da un fitto manto di alberi che si estende a perdita d’occhio da ogni lato. Visto dall’alto è una sorta di immenso tappeto verde, la cui regolarità è interrotta quasi solamente da sporadici paesini che, qua e là, spuntano in mezzo alla foresta. Ecco, appunto. “Quasi” solamente.

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Perché ce n’è uno, di questi paesini, con le rovine di un castello appollaiate in cima ad un’altura a mo’ di sinistro totem, che attorno a sé ha qualcosa in più degli altri. Probabilmente, da quelle parti, in un tempo passato deve aver abitato il Diavolo. Che lì, vicino al piccolo agglomerato di Nürburg, decise di disegnare un circuito tutto per sé. Perché una pista spietata come l’anello Nord no, non può averla pensata una mente umana. Più di 20 km, oltre 25 nella sua configurazione originaria, condensati in un’infinità di curve l’una diversa dall’altra, con solo gli inamovibili alberi pronti a fermare – fino al 1970, anno in cui apparvero le prime, rudimentali barriere in acciaio – la folle corsa delle auto guidate dagli eroi che osano addentrarsi nell’Inferno Verde.

La Nordschleife aveva già da tempo richiesto il suo tributo, nell’ormai lontano 1983. Diversi cambi di layout erano stati imposti ad una pista che, implacabile ed insensibile, aveva mietuto troppe vittime tra i piloti. Ma il ‘Ring, seppur mutilato di diverse parti e lungo “solo” 20,832 km, è un mostro che quando vuole non lascia scampo. Soprattutto se percorso a bordo di altri mostri, quelli che l’uomo ha costruito per domare la sete di velocità che il genere umano ha instillato nel DNA dalla notte dei tempi: le auto da corsa. Che, nel caso specifico di quel maggio ’83, erano le Gruppo C: pronte, schierate, preparate per rendere omaggio, con la loro ultima 1000 Km, al Nürburgring, una pista ormai considerata davvero troppo pericolosa per continuare ad ospitare gli sportprototipi, che negli anni avevano raggiunto prestazioni mostruose. 

La sfida per la vittoria, quell’anno, è tra gli squadroni Porsche e Lancia. Quest’ultima, in particolare, ha un conto in sospeso con la Nordschleife: era passato infatti solamente un anno da quando Riccardo Patrese, nel tentativo di far segnare il record sulla vecchia configurazione da quasi 23 km, aveva demolito una LC1 sulla Sprunghugel di Pflanzgarten, il celebre dosso del ‘Ring che per anni ha mandato le auto con tutte e quattro le ruote sospese in aria ed i tifosi in visibilio. Eppure, il team favorito, nel 1983, era quello Porsche – Rothmans. Tra le fila della squadra di Stoccarda, arrivata al Nürburgring con le sue 956, c’erano infatti piloti del calibro di Derek Bell, Jochen Mass – all’epoca impegnato anche in Formula 1 – e Keke Rosberg, giunto da Campione del Mondo della F1 in carica per onorare con la sua presenza l’ultima 1000 Km del ‘Ring. Ma l’atmosfera nel box del team di Stoccarda, nonostante le Lancia – Martini LC2 non apparissero così minacciose, non è affatto rilassata. Perché oltre a Bell, Mass e Rosberg, in squadra la Porsche ha Jacky Ickx, l’uomo che in quegli anni spadroneggiava con i prototipi della Casa tedesca. Ickx, quell’anno, porta alla mano un ornamento molto particolare e simbolico, soprattutto per chi correva nell’Inferno Verde in quegli anni: un anello di acciaio, grezzo, poco rifinito, ma con la sagoma del Nürburgring in rilievo. Un anello che viene dato solamente ai piloti che sulla Nordschleife avevano vinto tre volte, e che Jacky aveva guadagnato trionfando con Ferrari negli sportprototipi, in F1 con Brabham e di nuovo in Formula 1 con la Casa di Maranello. Quell’anello, dal valore commerciale pressoché nullo, era un simbolo, un attestato di coraggio infinito, pazzia smisurata ed immane talento. Rappresentava un qualcosa che Jacky Ickx non sopportava di veder messo in discussione da quel ragazzino biondo di appena 25 anni, arrivato in Porsche ad inizio stagione tra lo scetticismo generale di chi lo considerava troppo inesperto, troppo giovane, troppo sfacciato. Perché nella squadra Porsche – Rothmans, in quel 1983, oltre a Bell, Mass, Rosberg e Ickx c’era anche lui: Stefan Bellof. Che quell’anno aveva già centrato la Pole Position nelle gare di Silverstone, Kyalami e Fuji. Vincendole tutte e tre.

© Porsche Pitpress
© Porsche Pitpress

E’ la mattina del 28 maggio, e la Porsche, per la prima volta, ha deciso di montare sui pneumatici anteriori delle sue 956 i cerchi da 13″, che permettono ai prototipi di Stoccarda di adottare un angolo di camber più elevato ed un maggiore angolo di sterzo, valorizzando la guidabilità dell’auto. E’ la mattina del 28 maggio, e l’Eifel se ne frega che stia arrivando l’estate: ci sono 5°, lame di nebbia trafiggono la foresta e solo i merli sbeccati del castello di Nürburg si fanno largo tra le nuvole basse, che non lasciano però cadere pioggia. E’ la mattina del 28 maggio, sono le qualifiche dell’ultima 1000 Km del ‘Ring, e le Gruppo C sono pronte a rompere la quiete della foresta tedesca. E’ la mattina del 28 maggio, e Stefan Bellof sta per entrare nella leggenda. 

Gli occhi di tutti sono puntati sulla sfida Porsche – Lancia. Le 956 sono veloci, e le modifiche apportate ai prototipi di Stoccarda dovrebbero permettere loro di districarsi ancora meglio tra i meandri dell’Inferno Verde. Ma quello che nel box si inizia a vedere già dal primo intertempo è qualcosa di irreale. Le previsioni della vigilia sono confermate, è vero: le Porsche 956 sono effettivamente veloci. Ma ce n’è una che sin dal primo intertempo di Breidscheid è clamorosamente, incredibilmente, tremendamente più veloce delle altre: ed è quella di Stefan Bellof. Lo chassis #007, tra le mani del tedesco, si trasforma in un missile: fagocita l’asfalto dell’anello Nord ad una velocità pazzesca, ed al secondo rilievo cronometrico a Brünnchen i box sembrano attraversati da un fremito. Si sta assistendo a qualcosa di storico, di inumano, ed iniziano a capirlo tutti. Stefan danza tra le curve, è un fulmine sul lunghissimo rettilineo di Döttinger Höhe, sul Tiergarten e su Hohenrain. Il fremito nei box nel frattempo era andato in crescendo, e l’emozione è palpabile non appena si riconosce la Porsche 956 arrivare in lontananza, divorare le ultime curve e tagliare il traguardo. Passano pochi secondi di incertezza, gli istanti necessari al trasponder per registrare il crono, e tutta la Pit Lane si ammutolisce: il tempo apparso sugli schermi, semplicemente, non è solamente impossibile. E’ impensabile. “Quando il crono è apparso sugli schermi, ho pensato ‘Non può essere giusto, dev’esserci qualcosa che non funziona nell’orologio’, dirà poi Rainer Braun, portavoce dell’evento e manager di Bellof, a dimostrazione di quanta incredulità ci fosse nella Pit Lane del ‘Ring dopo aver visto apparire quelle cifre sul display.

6’11″13. 6 minuti, 11 secondi e 13 centesimi. Per percorrere 20,832 km, quei 20,382 km. Un tempo che sta a significare la stordente velocità media sul giro superiore ai 200 km/h: Stefan è il primo uomo a riuscirci, nell’Inferno Verde. I volti di chi lo accoglie una volta tornato ai box sono sbigottiti ed increduli, ma mai sicuramente come quelli dei primi uomini che parlano con Stefan dopo quel record, complimentandosi per quel giro fuori dalla realtà. “Sì ok, bel giro, ma potevo andare anche più veloce. Ho fatto due errori, e ho trovato una 911 davanti a me. dice quel giovane tedesco, lasciando a bocca aperta chi gli era attorno. Anche perché Stefan non è pago: si guarda attorno, fiuta l’aria, capisce che la temperatura si sta alzando e che le condizioni della pista stanno migliorando. “Montatemi quattro gomme nuove, così facciamo un vero record”, propone a Manfred Jankte, all’epoca Direttore Sportivo di Porsche, mentre un fuoco alimentato dal suo talento innato gli arde negli occhi. Ma Jankte non può accontentare stavolta il biondo pilota di Giessen: l’obiettivo di Porsche non è far segnare un nuovo record, ma vincere l’ultima 1000 Km del ‘Ring e soprattutto sconfiggere le Lancia. La prima delle quali, dal tempo di Bellof, dista 30. Non millesimi, non centesimi, non decimi. Ma secondi.

Come si arresta però una forza della natura? Semplice, non si arresta. Stefan, dopo quel crono inavvicinabile per qualsiasi comune mortale, viene lasciato ai Box. Il 25enne tedesco ha forse il tempo necessario per riflettere sul suo giro, per capire dove ha sbagliato, per intuire dove può migliorarsi. La Pole, ovviamente, è sua. Ma a quel punto la gara per Stefan non ha più alcun significato. Stefan non vuole una vittoria al ‘Ring, vuole il ‘Ring: vuole capirlo fino in fondo, vuole affrontarlo a viso aperto, vuole dominarlo come mai nessuno è riuscito a fare fino a quel momento. A Stefan, degli obiettivi della Porsche, non frega più nulla da tempo quando si abbassa la visiera all’interno della sua Porsche 956 schierata sulla griglia di partenza. Adesso è una questione tra lui, un angelo biondo che arriva da una piccola cittadina tedesca, e l’altro, un inferno verde fatto di asfalto e sangue.

29 maggio 1983, giorno della gara. I nuvoloni che dall’inizio del weekend opprimevano l’Eifel in una cappa grigia decidono, sin dalle prime ore della mattina, di scaricare acqua a profusione sugli oltre 20 km della Nordschleife. L’ultima 1000 Km del ‘Ring prende il via accompagnata dal fragore della pioggia battente che flagella l’Eifel, e in quello scenario da incubo Stefan è semplicemente inarrestabile: il tedesco scappa via, e quando consegna la sua 956 nelle mani di Derek Bell il vantaggio costruito sulla vettura gemella è decisamente cospicuo. Ma un vantaggio cospicuo può non bastare, se sull’altra auto sale Jacky Ickx, con quell’anello del ‘Ring che sembra voler reclamare un dominio che è già suo ma che improvvisamente messo in discussione da qualcun altro. Ickx fa sfoggio del suo immenso talento tra le curve mortifere del ‘Ring: recupera lo svantaggio su Bell, lo supera e, non pago, crea un vuoto di 30″ sulla Porsche 956 guidata dall’inglese prima di consegnare di nuovo il prototipo di Stoccarda a Jochen Mass. Quando Bell torna ai box, Stefan non lo vede neanche: i suoi occhi sono già oltre l’uscita della Pit Lane, la sua mente è già lanciata all’inseguimento dei suoi compagni di squadra. Al rientro in pista Bellof semina il terrore: in 4 giri recupera i 30″ a Mass, si libera di lui in nemmeno 6 curve e poi scompare tra le cicatrici d’asfalto dell’Eifel, danzando tra i cordoli grazie ad un talento che solo lui – e forse un brasiliano dal casco giallo con cui aveva avuto modo di condividere qualche test… – ha. La gara, a quel punto, è saldamente nelle sue mani.

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Ma, nel frattempo, ha smesso di piovere da diverse ore. La pista è praticamente asciutta, la temperatura dell’asfalto sta salendo, e i tempi si stanno abbassando sensibilmente di giro in giro. E’ il segnale che Stefan attendeva. E’ il mostro, l’Inferno Verde, che lo sta chiamando, attendendolo acquattato dietro qualche curva per colpirlo all’improvviso e fargli capire che non può essere battuto. Bellof, all’improvviso, decide di rientrare ai box. “Gomme usurate”, dice. “Non è vero ma voglio gomme nuove”, pensa. Nel successivo paio di giri, durante i quali Stefan si libera del traffico e manda in temperature gli pneumatici, il Box Porsche è ottimista: Bellof sta rispettando i cartelli “Slow” che ormai da tempo gli vengono esposti sui pit board. D’altronde non c’è bisogno di spingere, con il proprio diretto avversario ad oltre 1’30”. Poi però, all’improvviso, vedono la Porsche 956 arrivare a folle velocità sul traguardo, ingranare un’altra marcia e gettarsi con rabbia tra le viscere del Nürburgring. Basta uno sguardo, agli uomini Porsche, per capire cosa stia accadendo: Stefan Bellof si è appena lanciato per un giro veloce. Perché c’è sempre bisogno di spingere, se il proprio diretto avversario è la pista stessa. 

L’impresa del biondo di Giessen è semplicemente folle: con un carico di benzina più elevato e con il traffico, replicare quanto fatto durante le Qualifiche è utopia. Lo pensano tutti, lo credono tutti. Almeno fino a quando la Porsche 956 di Bellof non passa davanti alla prima fotocellula di Breidscheid e fa gelare il sangue nelle vene di tutti gli uomini presenti all’Eifel quel giorno. Stefan Bellof, in condizioni di gara, sta abbassando il proprio tempo delle Qualifiche. Divora Kesselchen, Klostertal, Hohe Acht e Brünnchen, il punto in cui l’altra fotocellula racconta di un vantaggio addirittura aumentato rispetto al 6’11″13 del giorno prima. Ma l’Inferno Verde, ve lo dicevo prima, attende Bellof nell’ombra: il mostro aspetta che Stefan si sfoghi e poi, sulla Sprunghugel, balza implacabile sull’angelo biondo, azzannandolo. In quella curva la Porsche 956 si stacca come sempre da terra con tutte e quattro le ruote, ma stavolta qualcosa va storto: forse un cordolo colpito in maniera troppo netta, forse una traiettoria più esterna del normale – lì dove c’erano più avvallamenti dell’asfalto – fa scomporre in volo l’auto di Bellof. Il prototipo di Stoccarda atterra su una ruota sola, si impunta, e dà inizio ad una folle carambola: gli strettissimi guardrail del ‘Ring violentano lo chassis #007 su cui stava volando il giovane tedesco, fortunatamente illeso nel suo abitacolo dopo aver perso detriti e speranze di record in oltre 100 metri di pista, poco prima della “S” che oggi, di quel giovane tedesco, porta il nome.

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I Commissari di Pista si affannano, corrono sul luogo dell’incidente temendo la tragedia. Ma a Stefan la Nordschleife, in fondo, ormai vuole bene: chi mai ha avuto infatti il coraggio di sfidarla così sfacciatamente? Il 25enne di Giessen esce da solo dall’abitacolo ormai distrutto, e con il sorriso sulle labbra fa spallucce a chi lo guarda come per dire “Ci stavo riuscendo, peccato sia andata così“. Rifiuta un passaggio fino ai Box, e si fa 8 km a piedi per trascorrere ancora qualche ora in compagnia del ‘Ring, della pista che lo stava consegnando alla Storia. Poi, dopo aver firmato autografi a chiunque glieli chiedesse, fa finalmente ritorno ai box Porsche.

Chissà Stefan che clima abbia trovato ad attenderlo, tra gli uomini di Stoccarda. Chissà se persino la pragmaticità teutonica abbia capito che uno chassis sacrificato sull’altare del Motorsport alla ricerca di un limite inarrivabile era un prezzo più che equo da pagare. E chissà se il 1° settembre del 1985, durante la 1000 Km di SPA, il pilota che entrò affiancato a Bellof al Raidillon negli attimi che precedettero l’incidente rivelatosi mortale per il giovane tedesco stesse pensando a quel tempo che nemmeno lui era riuscito ad avvicinare. Come dite? Perché mai avrebbe dovuto pensarci? Semplice. Perché un anello in acciaio, consegnatogli dopo tre vittorie sul ‘Ring, gli ricordava ogni giorno, da 3 anni ormai, che il Re del ‘Ring non era più lui. Perché Jacky Ickx – sì, quello stesso Jacky Ickx -, all’ingresso del Raidillon, sapeva che di anelli in acciaio ne erano stati forgiati diversi, nel corso della storia del ‘Ring. Ma sapeva anche che invece, di 6’11″13, ne era stato forgiato solamente uno. E che quell’uno apparteneva solo a lui, solo a Stefan Bellof: l’Angelo Biondo dell’Inferno Verde. 

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Stefano Nicoli

The author Stefano Nicoli

Giornalista pubblicista, innamorato dal 1993 di tutto quello che è veloce e che fa rumore. Admin e fondatore di "Andare a pesca con una LMP1", sono EXT Channel Coordinator e Motorsport Chief Editor di Red Bull Italia, voce nel podcast "Terruzzi racconta", EXT Social Media Manager dell'Autodromo Nazionale Monza e Digital Manager di VT8 Agency. Sono accreditato FIA per F1, WRC, WEC e Formula E e ho collaborato con team e piloti del Porsche Carrera Cup Italia e del Lamborghini SuperTrofeo, con Honda HRC e con il Sahara Force India F1 Team. Ho fondato Fuori Traiettoria mentre ero impegnato a laurearmi in giurisprudenza e su Instagram sono @natalishow