Avete presente la famosa immagine dell’iceberg che si vede spesso sui social? Quella in cui dall’acqua sporge un piccolo pezzo di ghiaccio, mentre sotto la superficie si staglia una vera e propria montagna sommersa. Se non l’avete presente, ve la mettiamo qua sotto. In ogni caso, questa immagine viene generalmente utilizzata come segnale di diffidare dalle apparenze: di solito, ciò che da fuori può sembrare facile, cela in realtà una miriade di altre cose nascoste che hanno portato a ciò che si vede dall’esterno.
Ecco, tale metafora può descrivere, tra le varie cose, il motorsport. La percezione che molti hanno è che la Formula 1 sia l’unica serie esistente, perché è la più famosa, fermandosi solo a guardare quella senza provare a tuffarsi nell’enorme mare del motorsport. Certo, non è obbligatorio seguire tutte le corse, ma se è per questo neanche esprimere pareri lo è. Per molti, se non arrivi in cima, o addirittura, se ci arrivi senza essere “un Hamilton” (dominando, si intende), sei un fallito. Stando alle opinioni di questa gente, se vai a correre in Formula E, in Indycar, nel WEC, o nel GT, stai presenziando in campionati di scarti della Formula 1. Ogni volta che un pilota che non ha avuto una carriera eclatante in F1, o che addirittura non è riuscito ad entrarvi, vincano qualcosa di importante, ecco che tornano commenti del genere. Ultimo caso in ordine cronologico, la vittoria di Marcus Ericsson nella 500 Miglia di Indianapolis. Il pubblico dei social ha decretato che lo svedese sia un pilota scarso e che la sua vittoria in una gara così importante come la 500 Miglia di Indianapolis, altro non sia se non un chiaro segno di quanto sia basso il livello dei piloti.
Questa discutibile tesi è avvalorata, secondo molti, da altri piloti che in F1 hanno conquistato poco (si citano spesso Sato, Grosjean e Rossi) o di piloti ben avanti con l’età (Castroneves, Kanaan, e Montoya) che oltreoceano fanno bella figura. Il caso di Ericsson qui è usato a titolo esemplificativo, ma si può estendere ad esempio ai commenti riportati ogni volta che in Formula E vinca un Vandoorne o un Vergne, o al caso di Fernando Alonso, che quando andò lui a Indianapolis rischiò di fare il colpaccio al primo tentativo.
Quello a cui voglio arrivare è che si è arrivati ad un eccessivo utilizzo del termine “scarso”. Lo spettatore medio, guardando solo la Formula 1, crede che questa sia il centro del mondo. I piloti sono divisi in “forti” e “scarsi” – e dico scarsi per non usare altri termini -, quando in realtà questo rappresenta il vertice delle competizione a quattro ruote, l’Olimpo del motorsport. Solo pochi per volta possono accedervi, e soprattutto, con il passare del tempo, sempre di meno possono rimanervi di anno in anno. E sto volutamente ignorando una miriade di altri fattori, come l’età, la maturità personale, le esperienze pregresse, l’adattamento alla vettura… tutte cose che possono influenzare una carriera sportiva.
Nel caso specifico di Ericsson, parliamo di un pilota che, dopo buoni risultati nelle categorie minori, è giunto in F1, rimanendovi per cinque anni in team di bassa classifica, senza particolari acuti, vero, ma senza neanche fare disastri epocali. Qualcuno potrebbe sottolineare che l’ha potuto fare perché aiutato dagli sponsor, ma quale brand ti dà soldi e fiducia se non crede nelle tue capacità? Marcus, dopo aver concluso la sua esperienza nella categoria regina, si è spostato in Indycar, diventando man mano un top driver della serie vincendo qualche gara, fino al culmine della Indy 500. Non si tratta quindi di un successo casuale, un exploit, ma di un traguardo giunto facendo un passo alla volta, e soprattutto arrivato con una prestazione sontuosa dello svedese, maturata nell’ultimo stint con sorpassi eccellenti e difesa fino all’ultimo con l’aggressività di chi sa che si trova davanti l’occasione della vita e non vuole farsela scappare.
Arrivare in Formula 1 non è facile e non è da tutti. Già il semplice fatto di aver disputato un Gran Premio è motivo di vanto, poiché vuol dire essersi messi alle spalle chissà quanti piloti per arrivare ad occupare uno di quei pochi posti. E’ vero che l’obiettivo comune di chi gareggia è quello di vincere e solo pochi possono raggiungerlo, ma negare il merito di chi non ce la fa, fermandosi a pochi centimetri dalla vetta dell’iceberg, vuol dire sottovalutare l’enorme impegno che ci mettono questi piloti.
Ericsson, nel caso specifico, non è Hamilton. Ma se ragioniamo in base a tutti i piloti esistenti al mondo, è inaccettabile definirlo scarso. Se tutti quanti capissimo questo, imparndo ad apprezzare le gesta dei pochissimi in grado di apprezzare un qualunque posto della scalata, probabilmente i social sarebbero un posto migliore.