Il 2020 si è chiuso con un successo a testa per Joan Mir da Palma de Mallorca, il classico bravo ragazzo carico di ambizioni, e per il team Suzuki Ecstar avviato e gestito da Davide Brivio, il quale lo creò dal nulla nel 2013 affittando un capannone a Cambiago alle porte di Milano. Nella tappa finale di Portimao è mancato il guizzo finale, Suzuki non ha vinto il Mondiale Costruttori mentre Rins si è dovuto accontentare del terzo posto nella classifica iridata, alle spalle di Morbidelli. Squadra che vince non si cambia diceva Vujadin Boškov, eppure il team Suzuki Ecstar inizierà il Motomondiale 2021 senza Davide Brivio, passato a dirigere l’Alpine F1 Team, e senza un suo erede.
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Davide Brivio è stato senza dubbio un tassello fondamentale per il successo della Suzuki. Brianzolo di nascita, Brivio si prese l’impegno di riportare la Suzuki in MotoGP partendo da un test team efficace e con piloti di spessore, nello specifico De Puniet prima e l’eterno Guintoli. Al Campione del Mondo Superbike 2014 è ancora oggi affidata l’attività di sviluppo della GSX-RR. Questo ha permesso al buon Brivio di scegliere piloti veloci e affamati, seppur sulla carta poco indicati per una moto tutta da sviluppare, come i vari Vinales, Aleix Espargaro, Rins, Iannone e Mir.
Proprio quel test team del 2013, un mix italo-giapponese a cui si aggiunse in seguito un gruppetto di ingegneri fuoriusciti dalla Ducati con Preziosi, è stato la base dell’attuale team Ecstar che schiera le Suzuki ufficiali in MotoGP. A Brivio bisogna riconoscere la lungimiranza con cui ha creato una struttura sportiva di alto livello, anche grazie all’aiuto di Suzuki Italia per quanto riguarda logistica e comunicazione, partendo dal nulla. Il team Suzuki Ecstar non è stato solamente in grado di sfruttare al meglio il materiale tecnico concepito in Giappone, ma pure di interfacciarsi correttamente coi tecnici provenienti dal paese del Sol Levante per lo sviluppo di una moto vincente come la GSX-RR.
Ma qual è stato il segreto della GSX-RR? Il segreto sta nella sua semplicità. Basta osservarla. Per esempio troviamo delle appendici aerodinamiche quasi posticce se confrontate con quelle dei rivali in MotoGP. Eppure funzionano. Poi la forma del cupolino, pulito e rimasto quasi inalterato dal 2013, il quale deve prima di tutto proteggere il pilota dall’aria, poi viene il resto. E la bocca dell’air box? Squadrata. Posta nel punto di massima pressione dell’aria per ottimizzare l’effetto Ram Air e via.
Il telaio è un pezzo di tradizione giapponese, parliamo di un doppia trave in alluminio. Nulla di nuovo o rivoluzionario, eppure questo telaio è in grado di conferire alla GSX-RR doti dinamiche incredibili. Le caratteristiche vincenti della GSX-RR sono state una velocità di percorrenza nettamente superiore alle altre moto in griglia – ricordate l’ultima curva di Aragon? – ed una motricità da dieci e lode, la quale ha garantito tanta gomma buona nelle fasi finali delle corse a Mir ed a Rins. Infine il motore, un classico 4-in-linea di scuola Suzuki, leggasi ottima schiena e grande corposità, arricchito dalla fasatura irregolare degli scoppi per gestire meglio trazione e usura al posteriore, cosa impossibile con un motore screamer. Nessun tuffo nell’ignoto, come successo nel 2002 quando Suzuki si presentò alla prima stagione della MotoGP con un motore V4 incastonato nella GSV-R. Fu un disastro.
Se ripensiamo alla stagione 2020 partendo dai primi test invernali, viene naturale pensare che questa semplicità di base ha permesso alla GSX-RR 2020 di adattarsi alle nuove Michelin posteriori prima e meglio delle altre moto schierate in MotoGP. Ma semplicità non vuol dire mica soluzioni banali, anzi vuol dire rendere di facile attuazione pure le tecnologie più ardite. Prendiamo ad esempio la fasatura variabile, Suzuki la utilizza in MotoGP ed è stata in grado di ottenerla in una maniera tanto semplice quanto efficace. Parliamo dell’SR-VVT (Suzuki Racing Variable Valve Timing System), soluzione portata anche nella produzione di serie a partire dal 2017 con la GSX-R1000 L17.
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Il sistema di fasatura variabile Suzuki è molto semplice e leggero ma soprattutto è completamente meccanico. Infatti viene sfruttata sfrutta la forza centrifuga che fa muovere 12 sfere di acciaio, le quali lavorano lungo delle guide all’interno di due piastre poste tra le ruote dentate e gli alberi a camme, una solidale con l’albero a camme e l’altra con la ruota dentata. Le sfere muovendosi radialmente una contro-rotazione delle due piastre, inducendo la variazione di fase. Con questo sistema la variazione di fase avviene in modo continuo, consentendo un’ottimale controllo dell’erogazione lungo tutto l’arco di giri senza picchi o vuoti nell’erogazione. Una soluzione geniale perché semplice.
Alla fine non c’è un segreto nel successo di Mir, della Suzuki e del team milanese guidato da Brivio, a parte l’aver puntato sulla forza della semplicità come base di partenza per raggiungere il tetto del Mondo.