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4 RuoteFormula 1Su pista

Il fanatismo per Charles Leclerc non serve. Né a lui, né alla Scuderia Ferrari





Gran Premio di Singapore. La bandiera a scacchi sventola festosa al termine dei 61 giri previsti. Sotto di essa, davanti a tutte le altre 18 vetture presenti sulla griglia di partenza della Formula 1, transitano le uniche due tinte di rosso. E’ doppietta Ferrari.

© Scuderia Ferrari Press Office
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E’ un trionfo. Perché è la prima doppietta mai messa a segno da una scuderia su un circuito, quello di Marina Bay, in cui neppure i 1600 fari riescono a far luce su tutte le insidie nascoste tra i muretti. Perché è la prima di un 2019 che per gli uomini di Maranello è stato maledettamente complicato nella sua metà iniziale. Perché è stata centrata pur non scattando con entrambe le auto dalla prima fila. Perché è stata ottenuta avendo la meglio, tanto in pista quanto al muretto, sulle sempre agguerrite Mercedes e Red Bull e sui mai del tutto domi Lewis Hamilton e Max Verstappen. E perché, infine, è arrivata su un asfalto ritenuto poco consono, inadatto, ostile – e storicamente e tecnicamente – alla Scuderia Ferrari. E’ un trionfo. O, almeno, avrebbe dovuto esserlo.

© Scuderia Ferrari Press Office
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Non tutti hanno infatti considerato l’esito del GP di Singapore come un successo dal sapore d’impresa. Alcuni – anzi, mi verrebbe da dire molti -, pur parteggiando per il Cavallino Rampante, hanno mal digerito il risultato della corsa di Marina Bay. Il motivo è presto detto: sulla linea del traguardo, delle due Ferrari, la prima a transitare è stata quella con il #5 stampato sulla carena. E non quella con il #16.

Apriti cielo. Non si è favorito il pilota che è in lotta per il Mondiale, si è detto. Il muretto box ha regalato la vittoria a Vettel, si è sentito. “Proprio oggi doveva vincere quello là”, si è scritto. Una follia dietro l’altra.

© Scuderia Ferrari Press Office
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Innanzitutto, Charles Leclerc non è stato, non è e – a meno che Hamilton non decida di prendersi delle ferie non retribuite concomitanti con almeno due dei sei GP ancora in programma – non sarà in lotta per l’iride in questo 2019. Matematicamente il monegasco potrebbe essere in grado di insidiare il trono del #44, ma il gap di 96 punti che lo separa dall’inglese è oggettivamente troppo ampio per poter razionalmente pensare (cataclismi esclusi) ad una rimonta in questa ultima parte della stagione. Ipotizzando infatti che Charles Leclerc trionfi in tutti e 6 i GP mancanti – portandosi a casa anche il punto aggiuntivo assegnato a chi fa registrare il giro più veloce -, a Lewis Hamilton sarebbe sufficiente chiudere 4° in ogni gara per conquistare il proprio sesto titolo iridato conservando addirittura 8 punti di vantaggio sul #16. Tra il filotto di vittorie consecutive di una Ferrari SF90 migliorata sì ma non ancora così sfacciatamente superiore rispetto alla sua diretta concorrenza e la sequela di risultati sottotono del connubio W10 – Hamilton, capite bene che sono troppe le variabili in gioco per poter considerare Charles Leclerc oggettivamente, concretamente, verosimilmente in lotta per il Titolo Piloti di questo 2019.

© LAT Images / Mercedes AMG F1 Press
© LAT Images / Mercedes AMG F1 Press

La conclusione di questa prima parte di ragionamento è legata a doppio filo con l’inizio della seconda, quella volta a confutare la tesi secondo cui il box Ferrari avrebbe, per non si sa bene quale motivazione, favorito Sebastian Vettel piuttosto che Charles Leclerc. Mattia Binotto e gli uomini del Cavallino Rampante, a differenza di quanto detto o scritto da parecchi media, del Titolo Piloti non fanno menzione da ormai parecchi GP. Per loro, molto probabilmente, è una questione decisa già da tempo dal dominio che Hamilton ha messo in scena nella prima fase della stagione. Non pensando dunque all’iride, per i ragazzi in rosso non c’è un pilota che debba essere favorito a discapito dell’altro: non ci si sta giocando un Mondiale punto per punto – come magari accaduto nel recente passato -, si è con entrambi i propri piloti a distanza siderale dal leader della classifica. Quindi, date queste premesse, gli interessi dei singoli possono ben essere piegati di fronte all’interesse della Scuderia, che da una doppietta ottiene un ritorno d’immagine (e di prestigio) ben maggiore rispetto a quanto non sia in grado di fare una “semplice” vittoria. La Ferrari, quando ha richiamato ai box Sebastian Vettel, lo ha fatto per un ben preciso motivo: tenersi dietro Verstappen per non doverne subire l’undercut e, allo stesso tempo, tentare di attaccare Hamilton sfruttando la medesima strategia. Una scelta semplicemente perfetta, che se non fosse stata effettuata con quelle modalità e tempistiche avrebbe fatto perdere una posizione a Vettel ed avrebbe fatto gridare ancora una volta all’incapacità del muretto Ferrari.

Il resto, in quel di Singapore, lo ha fatto “quello là” che proprio tra i muretti di Marina Bay (un asfalto a lui storicamente amico, fatta eccezione per la troppo breve parentesi dell’edizione 2017) ha deciso di voler tornare alla vittoria. Tutto si decide nell’out lap di Sebastian Vettel, il primo che il tedesco della Ferrari chiude con pista libera davanti a sé e con delle gomme Hard nuove montate al posto delle ormai usurate Soft. Un out lap nella norma, senza infamia e senza lode, avrebbe infatti consentito al #5 di sopravanzare agevolmente il solo Hamilton, qualora il #44 avesse copiato la strategia di Leclerc. Un out lap come il suo, che tutto è stato tranne che nella norma, gli ha invece permesso di guadagnare talmente tanto tempo da terminare in pista davanti alla Ferrari gemella, quella guidata dal monegasco. A quel punto, per una Scuderia che a suo mantra ha elevato – per volontà stessa del fondatore – il fatto di preesistere, coesistere e sopravvivere a qualsiasi pilota ne vesta i colori, tutti i pezzi del puzzle sono andati clamorosamente al loro posto. Poco importa chi ci sia davanti quando non si è in lotta per il Mondiale con un singolo (leggasi poco più sopra): se entrambe le monoposto sono davanti a tutto il resto dello schieramento, la strategia ha funzionato alla perfezione e dunque la gara si traduce in successo. Tra i due in pista, a quel punto, senza far danni che vinca il migliore. Che, a Marina Bay, è stato quello che prima della neutralizzazione per la Safety Car aveva scavato un solco di 6″ sull’altro prendendosi rischi indicibili nei sorpassi di auto più lente e che, dopo aver gestito tre ripartenze da SC, non ha mai permesso ad un compagno di team forse leggermente più veloce di portargli un attacco. 

© Glenn Dunbar / LAT Images / Pirelli F1 Press Area
© Glenn Dunbar / LAT Images / Pirelli F1 Press Area

Di fronte alla sequela di tessere del mosaico che combaciano l’una con l’altra fino a disegnare un successo su tutta la linea per il Cavallino Rampante, l’unica nota percepita come stonata da molti è dunque il fatto che a trionfare non sia stato Charles Leclerc. Un pilota dal talento lampante, cristallino, smisurato, unico, che a 21 anni ha già tagliato traguardi storici per la Scuderia Ferrari ma che, per responsabilità altrui, non può e non deve diventare – in un team che ha due driver validi e in un momento in cui con nessuno dei due può giocarsi il bersaglio grosso – unico centro di gravità, motore immobile, di una galassia immensamente variegata ed articolata come lo è quella del team di Maranello. Ἀνάγκη, la dea greca del destino, non si cura troppo del monegasco: ad altri riserva la sua attenzione, non di certo a chi, per giungere all’Olimpo, può contare su una classe, una ferocia, un agonismo che la natura gli ha già elargito in dono. I grandi del passato rosso, anche loro spesso chiamati in ballo a mo’ di spiriti guida del #16, non sempre devono essere assunti a metro di paragone di un qualcosa di nuovo, di diverso, di simile solamente a sé stesso e a nessun altro.

Celebriamo tutto ciò che è giusto celebrare, di Charles Leclerc. Ma non idolatriamolo animati da un malcelato bisogno di aggrapparsi a fato, coincidenze, numeri e personalità del passato nella speranza che ciò basti a far trionfare il Cavallino. La tuta rossa esercita una pressione unica nel suo genere: non lasciamo che il suo peso schiacci prima del tempo un pilota fenomenale, affogandolo in un mare di speranze svanite e di promesse incompiute. L’ultimo ad essere stato forzosamente paragonato ad un grande del passato Ferrari è stato proprio Sebastian Vettel. Che, come le ultime stagioni hanno dimostrato, non è riuscito a sostenere sulle spalle la mole di aspettative che il pubblico rosso riponeva in lui e che, dopo ben 392 giorni di astinenza, solamente con la – peraltro criticata – vittoria di Singapore ha visto un po’ di luce farsi strada tra le mura di un tunnel che sembrava non aver mai fine. 

© Scuderia Ferrari Press Office
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Evitiamo che ciò accada anche a Charles Leclerc. Perché, visto il margine di crescita del monegasco e la verosimilmente lunga carriera in F1 che egli ha davanti a sé, rovinarlo in questo modo potrebbe essere un errore davvero imperdonabile.





Tags : charles leclercf1formula 1scuderia ferrari
Stefano Nicoli

The author Stefano Nicoli

Giornalista pubblicista, innamorato dal 1993 di tutto quello che è veloce e che fa rumore. Admin e fondatore di "Andare a pesca con una LMP1", sono EXT Channel Coordinator e Motorsport Chief Editor di Red Bull Italia, voce nel podcast "Terruzzi racconta", EXT Social Media Manager dell'Autodromo Nazionale Monza e Digital Manager di VT8 Agency. Sono accreditato FIA per F1, WRC, WEC e Formula E e ho collaborato con team e piloti del Porsche Carrera Cup Italia e del Lamborghini SuperTrofeo, con Honda HRC e con il Sahara Force India F1 Team. Ho fondato Fuori Traiettoria mentre ero impegnato a laurearmi in giurisprudenza e su Instagram sono @natalishow