Ti vedo dappertutto. Non passa giorno, Billy, senza che ti pensi. Non passa ostacolo o problema, non c’è dubbio o esitazione, Billy, che io sciolga senza che il tuo sorriso mi scoppi nel cervello. Può sembrare falso. Non lo è. Scrivo queste righe sapendo che non le leggerai. Le scrivo per fare i conti con quello che penso, e per dire qualcosa di diverso ai tanti appassionati dell’automobilismo.
Ho scritto io l’articolo con cui Fuori Traiettoria ha annunciato l’agghiacciante incidente di Monger. L’ho scritto quel mercoledì, tre giorni dopo il crash, non appena ho letto che il 17enne aveva perso le gambe.
Quando scrivi di corse, in genere la reazione è istantanea. Non scrivi per un grande giornale, ma da “blogger” ti sono richieste comunque due qualità. La prima è la velocità: esce la notizia, e senza farla raffreddare tu la trasmetti. La seconda è la critica: non sei un giornalista, devi presentare il tuo punto di vista. E devi farlo senza esagerare e con obiettività.
Quindi, quando mi si è squarciato lo schermo del telefono con un link che diceva Billy Monger lost his legs, e la targhetta recitava 1 hour ago, mi sono soltanto alzato e ho acceso il PC. Se un pilota si fa male, tutti sappiamo cosa si scatena. La stampa si divide tra i cronisti specializzati, che si stringono attorno alla vittima e analizzano l’incidente, e i reporter del fumo che blaterano senza cognizione di causa su quanto le corse automobilistiche siano pericolose. Grande sforzo d’ingegno.
Leggere Monger lost his legs è stato un colpo. E una molla. Perché bisognava esporre la notizia e presentarla nella veste più professionale possibile. Perché, uno, motor sport is dangerous, ma, due, una ferita del genere è sempre grave. E merita rispetto.
Suona cinico, vero? Uno perde le gambe, tu ti metti davanti al computer e apri link a raffica per documentarti. Vedi tre, quattro volte il video dell’incidente. Ti fai un’idea. Pensi a cosa devi scrivere, e a come scriverlo.
È stato orrendo.
Ricostruire le circostanze dell’incidente, in primis, mi ha messo un nodo alla gola. Stai correndo, stai facendo la tua gara, c’è la pioggia e sorpassi gli avversari. Dal nulla – dal nulla! – compare un’automobile. Ferma sulla pista. E tu ci finisci sotto senza nemmeno accorgertene, e tre giorni dopo non hai più le gambe.
Provate voi a leggere una storia del genere e a scriverci un articolo. Vi renderete conto che, di fronte al foglio bianco, sospirerete a ogni virgola.
Poi, ancora peggio. Mancano ancora due paragrafi, vanno riempiti con le dichiarazioni di qualcuno che conosca il pilota. Perché nessuno sa chi è, non lo sai nemmeno tu che stai scrivendo. E la prima riga che ti compare sotto gli occhi è: «il tipo di ragazzo che illumina la stanza». Sì, hanno tagliato le gambe al ragazzino a cui non puoi non voler bene. La sfortuna – perché d’incredibile sfortuna stiamo parlando – ha colpito proprio quello che non la meritava per niente. Ti mordi le labbra, e sospiri di nuovo.
Ma il colpo di grazia arriva quando devi mettere due foto. Quindi inizi a cercare immagini per il tuo articolo. E in tutte le foto, in tutte le maledettissime foto che riesci a trovare, Billy Monger ti sembra più piccolo. 17 anni? Davvero?
Quasi non riesci a respirare quando clicchi su Pubblica.
La ragione è presto detta. Un incidente del genere era inevitabile e non è colpa di nessuno. Non c’è giustizia da invocare o un colpevole da punire. Nulla, o davvero poco, si può fare per impedire che accada in futuro.
Chiunque si avvicini a questa disgrazia e la esamini nei minimi dettagli non può che sentirsi impotente. Anche dagli articoli più freddi e oggettivi, da ogni parola, da ogni virgola emerge come un pugnale una verità difficile da accettare. Monger ha perso le gambe per nulla, per colpa di nessuno, e non può farci niente. È una storia profondamente ingiusta, che trasuda amarezza da ogni aspetto e che lascia senza parole.
E i giornali di che parlano? Discutono se il telaio Tatuus avrebbe retto meglio del Mygale. Si arrabbiano perché il ragazzo è imprudente o troppo piccolo (entrambe palesi bugie). Ribadiscono il loro marchio d’infamia sulle corse automobilistiche. O le assolvono, perché «sono cose che succedono» e basta, tutto torni alla normalità.
Ma io non voglio tornare alla normalità. Perché mi brucia, il pensiero che una tragedia del genere possa piovere dal cielo così, in qualunque momento, devastare una vita a caso e arrivederci e grazie.
Come si fa a rialzarsi da un colpo del genere? Come si reagisce quando ti cade il mondo addosso?
Billy ha un segreto. Sorride.
Pochissimi giorni dopo la disgrazia, appare su Facebook un video con cui ringrazia tutti i piloti che gli hanno scritto e firmato una lettera d’incoraggiamento. La voce è un po’ strozzata, forse è perché è in ospedale, forse è solo l’impressione di chi ascolta. È un tono fermo, basso e spedito. È caldo, perché è davvero emozionato. Una sola nota d’incertezza scompone il quadro: quando pronuncia le parole my life now.
Poi esce dall’ospedale, e va all’Oulton Park per fare una track walk su un golf buggy. Dietro di lui marciano i suoi sostenitori. Lo riempiono di foto. Sorride sempre.
Dove diavolo trovi l’energia per sorridere e andare avanti, infondendo calore e speranza in giro per il mondo, sinceramente non ne ho idea. È un dilemma, un enigma che mi perseguita da settimane. Perché la domanda è sempre la stessa: come ci si riscatta da un incidente del genere? Da dove ti viene la voglia di ridere, scherzare e ripartire da capo?
La forza d’animo e il sorriso di Billy sono una doccia rinfrescante per chiunque abbia letto la sua storia abbastanza bene da capire l’entità della disgrazia. Sono una fonte di speranza per chiunque abbia visto le sue foto, e si sia domandato come possa stare un ragazzo dall’aspetto così giovanile che ti vien voglia di coccolarlo anche se ti è quasi coetaneo. Ma sono anche qualcos’altro.
Quando il motorsport chiede il suo tributo di sangue, finiamo per concentrarci sugli aspetti sbagliati. Ci domandiamo come sarebbe andata avanti la carriera del pilota colpito. Tutti quanti ci appassioniamo alle ricostruzioni di tecnici e ingegneri, nel tentativo di capire cos’è andato storto. Sembra quasi di collezionare numeri e dati: l’entità della decelerazione, il numero di ossa rotte, i litri di sangue persi e i minuti necessari per far arrivare i soccorsi.
Non è che siano dati sbagliati in sé. La storia dell’automobilismo e del motociclismo è una storia di conquiste. E nel campo della sicurezza, ogni incidente ha aiutato altri a salvarsi. Poche ore fa ho seguito le qualifiche di Indianapolis [l’articolo risale al 22 maggio, ndr]: Sebastien Bourdais si è spiaccicato contro le protezioni a oltre 350 chilometri orari. Senza il telaio Dallara, senza le protezioni SAFER, Bourdais sarebbe morto. E tutti questi progressi sono stati fatti perché, trent’anni fa, un suo collega è morto. In un incidente identico.
Ma è possibile che ci dimentichiamo sempre della vittima? Ci perdiamo in discorsi filosofici. Ognuno di noi diventa, per un attimo, giudice assoluto della sicurezza nelle corse. Sembra un’affermazione qualunquista. Eppure mi piacerebbe soltanto che ognuno di noi, per un attimo, pensasse a cos’è successo a Monger. Correva. Da un momento all’altro si accartoccia contro una macchina. Probabilmente sviene. Altrimenti, agonizza per quasi un’ora in preda a dolori atroci. Va in ospedale. Dopo tre giorni, la sua vita è cambiata per sempre. E dovrà girare in una sedia a rotelle.
Fa quasi piangere, e lui ride.
Questa storia forse ha insegnato alcune cose al motorsport. Può suggerire miglioramenti nella costruzione dei telai. Può proporre un approccio nuovo nella gestione delle corse con scarsa visibilità. Nuove procedure in caso una macchina si giri in pista.
Ma insegna anche qualcos’altro. O almeno, a me ha dato anche altre due lezioni.
La prima: ci viene facile discutere degli aspetti tecnici, perché ciascuno di noi non riesce a entrare nella tragedia. È inevitabile. Non è colpa nostra. Un pilota perde le gambe, tu guardi la fotografia di lui sul podio: o t’innamori dell’immagine e senti il brivido di terrore al solo pensiero del crash, oppure nulla. Di fronte a te hai dati muti. Se non senti niente, non è colpa tua. È soltanto triste non accorgersene.
La seconda: sorridere è quanto di più difficile esista al mondo. E non è per tutti. Billy Monger sta ricostruendo la sua vita mattone dopo mattone, e lo fa con energia e voglia di vivere. Quanti di noi sarebbero capaci di fare altrettanto? Quanti di noi, di fronte ai piccoli problemi di tutti i giorni, si sentono venir meno, e vacillerebbero al solo pensiero di una mazzata del genere?
No, io non sarei capace di sorridere. E il sorriso di Monger non m’insegna quanto si dice di solito, che ce la si può sempre fare, che non bisogna abbattersi. Vedendo Billy sorridere ho scoperto un affetto e una stima infiniti nei suoi confronti. E mi sono convinto che non sarei mai capace di reagire con la sua stessa fibra.
Ma solo così ho capito con quanta superficialità ho guardato finora a eventi del genere, e con quali occhi li guarderò d’ora in poi. Mi sento meglio. Più triste, ma migliore.
Tempo fa ho intervistato un ragazzo che ha più o meno la stessa età di Monger. Anche lui corre in Formula 4. Lo sai, Billy, che ogni tanto sono in pensiero per lui? Sembra stupido, ma è così. Credo anche che è meglio che sia così. Mi aiuta a ricordare il lato umano delle corse. Il lato fragile delle corse.
Questa storia è amara, e il suo cosiddetto lieto fine bisogna zuccherarlo parecchio per farselo andar bene. Però, sembra una medicina. Per stare bene con se stessi bisogna mandarla giù per forza.