«Non esistono piloti americani abbastanza bravi per la F1». Sarà vero? È una frase che si sente spesso, ma ripetuta da Gunther Steiner fa un certo effetto. Il team manager dell’unica squadra a stelle e strisce del Circus fa sua un’opinione popolare in Europa. Peccato che dall’altro lato dell’Oceano la pensino diversamente. Proviamo a capire chi ha ragione.
«Al momento, a mio parere, non credo ci sia alcun pilota americano pronto per la F1» aveva detto in un’intervista. Su quali basi non l’ha specificato. Aveva invece precisato che «avere un pilota americano è sempre stato tra gli obiettivi della nostra squadra». Insomma, la critica al motorsport a stelle e strisce in realtà è molto più limitata di quanto sia stata avvertita oltreatlantico.
«Errato e arrogante»: questo il commento di Mario Andretti sulle affermazioni di Steiner. Il campione del mono 1978 (e plurivincitore di Indianapolis) è solo il più autorevole di una lunga serie di indignados insorti alle dichiarazioni di Steiner. Parole più colorite e altrettanto pesanti sono state pronunciate da Alexander Rossi e Bobby Rahal. Il primo, vincitore della 500 Indy 2016 e pilota F1 per cinque GP con la Manor, ha detto che Steiner deve star indossando «un paraocchi gigante». Molto più piccante il commento di Bobby Rahal: «Sono tutte ca**ate».
Rahal, proprietario del team omonimo presso il quale corre il figlio Graham, ha rincarato la dose. «Se davvero la pensa così, che chiami uno di noi, perché abbiamo dei piloti dannatamente bravi e pieni di talento. Secondo il team Haas gli americani non sono mai abbastanza bravi, ma allo stesso tempo non gli hanno mai concesso una chance. Non vale il nostro tempo».
Se il team Haas non ha ancora assunto americani le ragioni possono essere molteplici. La stessa permanenza di Kevin Magnussen ha fatto pensare a ragioni di budget: in ogni caso, Liberty Media sarebbe felice di accogliere un driver a stelle e strisce. Motorsport.com suggerisce che i nuovi proprietari della F1 vogliano inserire altri due GP in terra d’America.
Tornando al polverone sollevato dalle dichiarazioni di Steiner, si tratta della solita polemica sterile. Già in passato abbiamo sconfessato la teoria secondo la quale gli ovali non siano circuiti difficili. In realtà la IndyCar è un campionato formativo e ha una griglia di partenza con un certo spessore. Non è vero che gli scarti della F1 in IndyCar facciano faville: Max Chilton ha avuto una chance ma adesso è di nuovo a piedi (giusto per fare un esempio). Alexander Rossi, che in F1 una vera chance non l’ha mai avuta, adesso sta arrivando a piena maturazione.
A ogni modo, quanto dice Steiner non è del tutto vero ma non è nemmeno del tutto falso. F1 e IndyCar sono categorie profondamente diverse. L’osmosi è sempre possibile ma in effetti nel panorama motoristico americano (a ruote scoperte) scarseggiano i piloti USA abbastanza forti per debuttare nella massima serie (non stiamo considerando il resto della griglia della Indy, sia chiaro).
Ryan Hunter-Reay è ormai nella seconda fase della sua carriera (e le prestazioni delle Andretti rendono difficile una valutazione precisa del suo stato di forma). Alexander Rossi soltanto adesso riesce a perfezionare il proprio talento; altrettanto può dirsi di Graham Rahal. Marco Andretti ormai sembra aver dimostrato di non avere il calibro del ruolo.
L’unico driver che davvero merita il grande salto è Josef Newgarden. Campione del mondo della IndyCar 2017, era stato anche vicino al debutto in F1 al posto di Gasly. Ma poi ha declinato: meglio non bruciarsi. E d’altronde ha in tasca un contratto a lungo termine con Penske, il team più blasonato d’America…
Chi scrive crede che non abbia senso offendersi per un’affermazione del genere. Ormai è risaputo che la IndyCar attrae molti talenti stranieri ma meno statunitensi. Risultato di una concorrenza feroce con la NASCAR. Solo dall’IndyCar possono uscire stelle all’altezza del panorama europeo e adesso abbiamo bisogno che il campionato americano ci consegni nuovi assi. Indipendentemente dal fatto che Steiner abbia ragione o no, la IndyCar deve guadagnare terreno in patria. O in F1 The Star-Spangled Banner non suonerà ancora per molto tempo.