Con il secondo episodio di questa rubrica, andremo a ripercorrere la storia della Jordan, la giallona che si permise di disturbare i grandi a fine anni ’90.
Dalle categorie minori alla Formula 1.
Siamo negli anni ’70. La Repubblica d’Irlanda, ormai da decenni separata dal Regno Unito e dall’Irlanda del Nord, è in piena crisi economica. In questo contesto, nel 1976, si corre il campionato irlandese di kart, e a vincerlo è un ragazzo di ventott’anni. Il suo nome è Edmund, ma per tutti è conosciuto come Eddie. Eddie è un pilota di belle speranze che cerca, come tanti in quel periodo, di sfondare nel duro mondo delle corse automobilistiche, ma senza ottenere particolari successi. La possibilità di essere chiamati da una grande squadra è molto scarsa, specie quando non hai molti soldi da portare in dote. E in fondo, ad Eddie, non interessa neanche più di tanto. Oramai, giunto alla soglia dei trenta, ha capito che lui non vuole guidare una Ferrari, lui vuole essere Ferrari, cioè creare un proprio team automobilistico per vedere le proprie auto correre sui circuiti in giro per l’Europa, guidate da altri giovani piloti da modellare a proprio piacimento. E così, tre anni dopo quel successo, il punto più alto della sua carriera da pilota, Eddie Jordan decide di appendere il casco al chiodo e di sedersi, invece che in una vettura, su un muretto. Nel 1979 l’oramai ex pilota di Dublino fonda la Eddie Jordan Racing, il suo team, che schierò al via del Campionato irlandese di Formula 3. Per i successivi dieci anni la Jordan diventa una realtà sempre più solida nel panorama delle formule minori, attirando a sé giovani piloti sempre più talentuosi: da Martin Brundle, vicecampione della Formula 3 inglese nel 1984, a Johnny Herbert, campione della stessa categoria nel 1987; da Martin Donnelly a Jean Alesi, che vinse il campionato europeo di Formula 3000 nel 1989. Proprio il successo del francese nella serie continentale, ritenuta all’epoca la categoria ideale per chi volesse affacciarsi alla Formula 1, spinse Eddie a farsi due conti in tasca: “Dopotutto, la Formula 1 non deve essere tanto diversa, no?”. E così, a partire dalle festività natalizie del 1989, nel momento in cui le gare europee sono ferme, il costruttore dublinese iniziò a contattare una vecchia conoscenza: Gary Anderson. Progettista inglese di grande esperienza, aveva già in passato lavorato nella categoria regina, al servizio di Brabham e McLaren, ma soprattutto, aveva lavorato per la Reynard, il costruttore che aveva fornito alla Jordan le scocche che le avevano permesso di primeggiare in Formula 3000. Anderson, che già conosceva le abilità gestionali di Eddie, accettò, e non appena questo ricevette il sì inoltrò alla FIA la documentazione necessaria per potersi iscrivere al Campionato di Formula 1 1991. Tutto l’anno 1990 servì al neonato team per farsi le ossa per poter essere pronta alla grande sfida: per la sede del team fu scelto uno stabilimento vicino al circuito di Silverstone, mentre come piloti la scelta andò, come consuetudine per i piccoli team, per una giovane promessa e per un esperto del mestiere: come prima figura fu scelto il belga Bertrand Gachot, che aveva disputato alcune gare in Onyx, Rial e Coloni, mentre come pilota esperto la fu ingaggiato il romano Andrea De Cesaris. Tutto era pronto per il grande salto. Anzi non tutto. Mancava ancora una cosa.
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L’esordio in Formula 1 e il lampo Schumacher.
Mancava la macchina. La Jordan 191, la vettura con cui il costruttore irlandese iniziò il suo viaggio in Formula 1, era una vettura abbastanza semplice: spinta da un motore Ford da otto cilindri, un classico per i team che non si producevano in casa il propulsore, era colorata di un brillante color verde scuro, frutto di una partnership con una bibita gassata. La macchina si dimostrò da subito molto veloce, anche se abbastanza altalenante nella prestazioni, poiché a gare incredibili ne seguivano di anonime: dopo un esordio così così, in cui guasti e uscite di pista impedirono ai piloti di confermare quanto di buono fatto nelle qualifiche, il Gran Premio del Canada rappresentò una svolta, con entrambi i piloti in grado di cogliere i primi punti della storia del team grazie ad un quarto posto di De Cesaris e ad un quinto di Gachot. Dopo la gara nordamericana seguirono altre buone prestazioni del team: un quarto e un sesto posto a Silverstone, un quinto e un sesto ad Hockenheim, e il giro veloce fatto segnare da Gachot in Ungheria, risultati portarono il giovane team al quinto posto in classifica costruttori, davanti le più blasonate Tyrrell e Lotus. Sembrava un sogno, ma una sera di fine agosto, poco dopo la gara magiara, il team manager irlandese dovette incredibilmente rivedere i propri piani: il suo pilota, Gachot, era stato coinvolto in una rissa con un tassista londinese, e venne arrestato con l’accusa di aver usato contro di lui uno spray urticante. Con pochissimo tempo per scegliere un sostituto per la gara successiva, il Gran Premio del Belgio, Jordan accettò le pressanti richieste di un manager tedesco che chiedeva un posto per il suo pilota, un ventiduenne tedesco della Mercedes nel Campionato Sportprototipi, che portava in dote 150mila euro dalla casa di Stoccarda. Il tedesco, che in realtà non aveva mai guidato a Spa, si rese protagonista di un weekend interessante, finché non arrivò a piazzare il proprio nome in settima posizione nella lista dei tempi al sabato. Nome che, ovviamente, era Michael Schumacher. Nonostante al via Schumacher fu costretto al ritiro per un problema alla frizione, l’esordio fu positivo, ma Jordan non riuscì a trattenerlo, poiché il tedesco migrò alla Benetton, che in cambio diede al team irlandese il brasiliano Moreno. Il finale di stagione, causa problemi di inaffidabilità, non fu al livello della parte centrale: a Spa De Cesaris aveva addirittura rischiato di vincere, ma fu costretto al ritiro mentre era in piena rimonta sul leader Senna; Moreno, intanto, dopo due gare senza punti fu appiedato dopo la gara di Estoril, e venne sostituito dal giovane Alessandro Zanardi, che disputò le ultime tre gare stagionali senza maggior fortuna. Nonostante ciò, l’annata fu positiva, con il team che chiuse la sua prima stagione al quinto posto con 13 punti.
Molto meno positiva fu la stagione 1992. Dopo i buoni risultati dell’anno precedente, Jordan attirò sul suo team molti sponsor, tra cui la Yamaha, che fornì, oltre ai soldi, il suo motore V12. La scelta si rivelò tuttavia un errore: la nuova lineup, composta da Stefano Modena e Mauricio Gugelmin, non si attestò mai ad alti livelli, con il team che riuscì a raccogliere un solo punto con Modena nell’ultima gara in Australia. Deluso dal costruttore nipponico, Eddie per il 1993 scelse il terzo motore in tre stagioni di Formula 1, passando al V10 della Hart, e affidando la 193 all’esordiente Rubens Barrichello e all’ex Ferrari Ivan Capelli. Mentre Barrichello fu autore di una buona stagione, Capelli dopo poche gare cedette il suo posto a Thierry Boutsen, che a sua volta lasciò dopo il GP del Belgio. Nelle ultime quattro gare il volante fu preso da Marco Apicella (ricordato dalla F1 in quanto la sua è la carriera più corta di sempre), Emanuele Naspetti e Eddie Irvine, che a Suzuka si fece notare per aver fatto “alterare lievemente” Senna durante un doppiaggio. La stagione si concluse con 3 punti, tutti conquistati proprio a Suzuka con un quinto posto di Barrichello e un sesto di Irvine, che vennero riconfermati per il 1994.
Dal 1994 al 1997: i primi podi.
La stagione 1994 iniziò sotto i migliori auspici. Nelle prime due gare della stagione Barrichello fu autore di un quarto posto in Brasile e, soprattutto, di un terzo posto ad Aida, cogliendo il primo podio del team e portandosi in seconda posizione nel campionato piloti, mentre la Jordan era sorprendentemente terza. Dall’altra parte del garage, tuttavia, le cose erano più complicate: Irvine in Brasile si era reso protagonista di una terribile carambola con Verstappen e Brundle, e per questo fu squalificato per tre GP. Il nordirlandese fu sostituito prima da Aguri Suzuki, e poi dal rientrante De Cesaris, che giunse quarto a Monaco. Intanto, a Imola, Barrichello si rese responsabile di un terribile incidente al venerdì, preludio di ciò che sarebbe accaduto i due giorni successivi, ma riuscì a cavarsela con solo un’ingessatura al braccio, e tornò al volante già a Montecarlo. Per il resto della stagione le prestazioni furono in crescendo, e culminarono con una stupenda pole position conquistata a Spa da Barrichello, che riuscì a sfruttare al meglio le incerte condizioni metereologiche per beffare Schumacher e Hill. Questi risultati fruttarono alla squadra irlandese ben 28 punti, che la posero al quinto posto in classifica costruttori. Ciò portò all’accordo tra la squadra di Silverstone la Peugeot per la stagione successiva, dopo che il motorista francese perse la McLaren a vantaggio della Mercedes. Con il propulsore transalpino la Jordan si piazzò al sesto posto nel 1995, con il culmine che giunse in Canada, dove Barrichello e Irvine si piazzarono rispettivamente in seconda e terza posizione dietro la Ferrari di Alesi. Proprio la Ferrari, che per l’anno successivo aveva già ingaggiato Schumacher, vagliò la possibilità di ingaggiare uno dei due alfieri Jordan al fianco del tedesco per il 1996, e la scelta cadde, un po’ a sorpresa, sul nordirlandese, che a fine anno fece i bagagli in direzione Maranello.
La perdita di Irvine convinse Jordan ad ingaggiare una vecchia conoscenza, Brundle, per quella che sarebbe stata la sua ultima stagione in F1. La 196, totalmente rivoluzionata rispetto alla stagione precedente, non registrò miglioramenti rispetto alla 195, ma è da segnalare che da quell’anno i colori del team mutarono dal “puzzle” di sponsor degli anni precedenti al giallo che avrebbe caratterizzato la Jordan, grazie ad un accordo con un marchio di sigarette. Unico dato degno di nota di quell’anno fu l’incidente che coinvolse Brundle in Australia, quando cappottò al primo giro dopo un contatto con Coulthard, fortunatamente senza conseguenze per entrambi. A fine anno Barrichello decise di migrare verso la nuova Stewart, mentre Brundle appese il casco al chiodo. Per sostituirli, il team manager di Dublino si affidò a due piloti molto giovani, Giancarlo Fisichella, proveniente dalla Minardi, e Ralf Schumacher, il fratello del pilota che sei anni prima aveva fatto tanto bene in quell’unica gara al volante della Jordan. La stagione fu stupenda, con Schumacher in grado di cogliere un terzo posto già alla terza gara in Argentina, mentre Fisichella giunse terzo in Canada e secondo in Belgio, anche se alcuni attriti tra i due piloti portarono a diversi incidenti tra le due 197. Questi risultati fruttarono al team ben 33 punti e il quinto posto in classifica, e ciò attirò da un lato la Honda, che decise di fornire il motore per il 1998, e dall’altro l’ex Campione del Mondo Damon Hill, reduce da un’annata incolore in Arrows, che sostituì Fisichella, partente per la Benetton. Con Williams e Benetton indebolite dall’addio della Renault, la Jordan era una candidata credibile per il terzo posto in classifica, e fu con questa convinzione che il team partì alla volta dell’Australia per la prima gara stagionale.
La prima metà di stagione fu però un fallimento. Nonostante la 198 avesse fatto intravedere sprazzi di competitività, errori dei piloti o problemi di affidabilità impedirono a Schumacher e Hill di raccogliere punti per le prime otto gare. Il primo punto stagionale arrivò solo a Silverstone, con un sesto posto del tedesco, ma da lì in poi la stagione fu un crescendo: un quinto posto in Germania, un quarto e un sesto in Austria e un quarto in Ungheria portarono la Jordan al quinto posto in classifica, a ben venti punti però da Williams e Benetton. Si arrivò a Spa, pista amica della Jordan, con Hill che riuscì in qualifica ad ottenere un ottimo terzo tempo davanti alle Ferrari. Dopo la carambola iniziale, in cui il team irlandese fu l’unico team a salvare entrambe le vetture, alla ripartenza Hill riuscì a prendere il comando. Nonostante Schumacher (Michael) l’avesse ripreso in pochi giri, il suo successivo ritiro dopo un contatto con Coulthard mandò Hill al comando, mentre i ritiri di Irvine e di Frentzen favorirono la rimonta di Schumacher (Ralf) fino al secondo posto. Al termine di un’incredibile gara ad eliminazione, in cui solo otto vetture giunsero al traguardo, la Jordan poté conquistare la sua prima vittoria in carriera, con Hill primo a precedere Schumacher. Nella gara successiva il tedesco colse un ottimo terzo posto a Monza (gara che peraltro vide per la prima volta due fratelli sul podio, grazie alla vittoria di Michael), e questi ottimi risultati piazzarono la Jordan al quarto posto, miglior risultato di sempre per il team. E il meglio doveva ancora venire.
La (quasi) impresa di Frentzen.
Alla fine del 1998 Ralf Schumacher migrò verso la Williams, e al suo posto giunse proprio un ex pilota di Groove, Heinz-Harald Frentzen. La vettura, la 199, era un’evoluzione della 198, che tanto di buono aveva dimostrato. Dopo due podi nelle prime due gare stagionali ad opera del tedesco, la stagione procedette regolarmente fino al GP di Francia, quando Frentzen, partito quinto, riuscì ad imporsi grazie alla strategia, ottenendo il secondo successo della storia sua e del team. Da quel momento, complici la frattura ad una gamba che fermò Michael Schumacher per sei GP e le prestazioni altalenanti di Irvine, Coulthard e Hakkinen, Frentzen riuscì incredibilmente a farsi sotto in classifica, giungendo due volte terzo e imponendosi in maniera autorevole a Monza, mentre Hill era alle prese con una stagione, l’ultima in carriera, sottotono. La vittoria in Italia di Frentzen riaprì i giochi iridati anche per la Jordan: a tre gare dalla fine vi erano quattro piloti (Hakkinen, Irvine, Frentzen e Coulthard) racchiusi in dodici punti, con il tedesco a meno dieci da Hakkinen e Irvine, appaiati al comando. Nel successivo GP d’Europa Heinz-Harald scattò dalla pole, e rimase al comando per tutta la prima frazione di gara. Al sopraggiungere della pioggia, con Irvine e Hakkinen fuori dai punti, il tedesco si ritrovò per una manciata di giri leader del mondiale. Purtroppo, dopo il primo pit stop, Frentzen accusò un problema elettrico, e rimase fermo alla prima curva, dovendo così abbandonare le speranze iridate sue, di Eddie e di tutti coloro che avevano creduto che la favola sarebbe potuta essere possibile. A fine stagione il team e il pilota tedesco sarebbero giunti terzi nelle rispettive classifiche, miglior stagione di sempre, ma non di sa se a prevalere fu la soddisfazione o l’amarezza in quel di Silverstone.
Gli ultimi anni e l’ultima vittoria.
Dopo l’ottima stagione 1999, all’alba del terzo millennio la Jordan si presentò ai nastri di partenza come terza forza del Mondiale. Con un ampio budget, dovuto sia ai nuovi sponsor che agli introiti ricevuti per il terzo posto in campionato, e un nuovo pilota, Jarno Trulli, in sostituzione di Hill, la squadra era pronta alla sfida iridata, e la EJ10, la nuova vettura gialla, si dimostrò sin dai test in grado di poter sostituire degnamente la 199. Ma così non fu. La vettura era in realtà discretamente veloce, ma la poca inaffidabilità compromise l’intera stagione, con soli otto arrivi al traguardo. Con solo due podi stagionali di Frentzen (di cui uno ottenuto grazie ad una squalifica di Coulthard), l’annata si chiuse con soli 17 punti e un sesto posto in classifica, dietro Williams, Benetton e BAR. Anche l’anno dopo fu sugli stessi livelli, e gli unici fatti degni di interesse furono le girandole di piloti all’interno del team: a Monaco Frentzen ebbe un violento incidente, e fu sostituito da Ricardo Zonta in Canada. Lo stesso brasiliano sostituì il tedesco in Gran Bretagna, questa volta perché Frentzen passò alla Prost, ma solo per un GP, perché subito dopo venne rimpiazzato da Alesi, che già era stato nel team irlandese ai tempi della F3000, e che terminò lì la sua carriera in F1. A fine stagione la Jordan chiuse al quinto posto. L’anno dopo andò ancora peggio, con soli nove punti conquistati dalla nuova lineup, il rientrante Fisichella e il giapponese Takuma Sato, ma almeno conclusero davanti alla BAR, obiettivo dichiarato ad inizio stagione.
La stagione 2003 segnò il declino definitivo del team. A inizio anno il main sponsor abbandonò la squadra, e il budget si attestava a soli 80 milioni di dollari. Al posto di Sato venne scelto Ralph Firman, e l’addio del giapponese comportò anche la perdita dei propulsori Honda, con il passaggio ai Ford Cosworth. Dopo due prime gare difficili, il team sbarcò in Brasile senza grandi pretese. Durante i primi giri sotto Safety Car, entrambe le auto rientrarono ai box per rifornire. Approfittando delle condizioni miste e dei numerosi ritiri davanti a lui, Fisichella iniziò a guadagnare posizioni su posizioni, fino a superare il leader della corsa Raikkonen nel corso del 54esimo giro, poco prima che la gara venisse interrotta per un incidente di Alonso. E per fortuna, perché la vettura del romando andò a fuoco poco dopo la bandiera rossa. Per un errore di cronometraggio la vittoria fu inizialmente assegnata al finlandese, ma dopo il reclamo di Eddie Jordan il romano si vide restituito il successo, il primo per lui, ma l’ultimo per il team, che poterono festeggiare solo due settimane dopo ad Imola. Ancora oggi, questa viene ricordata come una delle gare più belle di sempre, e il successo di Fisichella è considerato una delle più grandi prestazioni per un outsider. Il resto della stagione fu difficile, con due soli altri piazzamenti a punti, mentre Firman, a causa di un incidente a Budapest, saltò la tappa ungherese e quella monzese, facendosi sostituire da Zsolt Baumgartner. Il team concluse al nono posto con 13 punti.
Nel 2004 il team toccò definitivamente il fondo. A Fisichella e Firman subentrarono Nick Heidfeld, Giorgio Pantano e Timo Glock (gli ultimi due che si divisero il sedile), che però riuscirono a cogliere solo cinque punti e a chiudere al nono posto, davanti solo la Minardi. Alla fine dell’anno il team, oramai in disgrazia, venne venduto al Midland Group, un gruppo di investitori, che dal 2006 avrebbe rinominato il team in Midland. Fu l’ultima stagione per la squadra, che si concluse con 12 punti e la nona posizione, davanti alla sola Minardi, ma che vide anche l’ultimo podio per Eddie Jordan, grazie al portoghese Tiago Monteiro, che giunse terzo nello stranissimo GP degli USA di quell’anno, in cui partirono solo Ferrari, Minardi e, appunto, Jordan. Fu l’ultimo acuto della storia del team irlandese, che tanto bene aveva fatto negli anni ’90 ma che tanto male aveva fatto nel terzo millennio. Ma in fondo, a noi appassionati non importa perché più che i risultati resteranno fissate nella memoria le stupende vetture prodotte dalla scuderia di Silverstone.
Risultati in F1
250 Gran Premi
3° nel Mondiale Costruttori come miglior risultato
3° nel Mondiale Piloti come miglior risultato
4 vittorie
2 pole position
19 podi
291 punti