E’ il 1924. L’Italia sta attraversando il ben noto periodo storico del Fascismo. Due anni prima, nel 1922, Benito Mussolini aveva preso il potere con la famosa Marcia su Roma, venendo nominato dal Re Vittorio Emanuele III Presidente del Consiglio. Il Duce durante il suo Governo cercò sempre di imprimere una politica nazionalista, vietando i termini stranieri (molte parole, come tramezzino, vennero coniate in quel periodo) e dando risalto a ciò che poteva dare lustro al nostro Paese, dalla letteratura allo sport, inteso come calcio, ciclismo o, appunto, l’automobilismo. Inoltre, aveva una discreta passione per l’automobile, cosa che molto spesso lo portava alla guida, nonostante il suo ruolo prevedesse un autista personale. Non stupisce nessuno, quindi, che la sua vita, seppur per un breve momento, si sia intrecciata con quella dell’uomo che forse più di tutti potè legare il suo nome all’automobile. Enzo Ferrari.
Il giovane modenese all’epoca era un pilota automobilistico di ventisei anni di belle speranze, ancora lontano dal divenire il Drake. Tuttavia, godeva di una buona fama sul territorio nazionale, poiché da molti considerato una delle promesse emergenti delle corse automobilistiche. Così, quando in quell’anno Mussolini decise di farsi un giro con la sua nuova macchina, un’Alfa Romeo spider a tre posti, da Milano a Roma, la scelta dell’accompagnatore nel tratto modenese cadde proprio su Ferrari, che conosceva bene quelle strade. A volerlo, fu proprio un senatore, Vicini, rappresentante del collegio di Sassuolo, che conosceva il giovane Enzo e lo riteneva degno di tale incarico.
Così, avvenne l’incontro tra Enzo Ferrari e Benito Mussolini. Il Commendatore aveva un’Alfa Romeo RLSS, decisamente meno potente della vettura del Capo del Governo. Inoltre, nonostante l’autista di Mussolini fosse un pilota professionista, Ercole Boratto (che poi vinse la Bengasi-Tripoli), il Duce decise di mettersi alla guida lui stesso. Il risultato fu un qualcosa di senza precedenti. Seppur avvisato dal suo accompagnatore, Guido Corni (Governatore della Somalia), che sfidare Mussolini non fosse una buona idea (qualche tempo prima ad un calciatore, Fulvio Bernardini, era stata tolta la patente per aver superato la sua auto sull’Aurelia), Ferrari se ne fregò, e nonostante dovesse solo fare da apripista, iniziò una stupenda gara con il Presidente del Consiglio. Mentre Ferrari, pilota professionista, era a suo agio sulle strade sterrate della Pianura Padana, Mussolini arrancava, complice anche la violenta pioggia, prendendo le curve in modo scomposto e rischiando più volte di schiantarsi o di cadere in un fosso. L’accompagnatore di Ferrari era atterrito: sapeva che essere la causa della morte di Benito Mussolini non sarebbe stato perdonato in alcun modo. Così come, sull’altra macchina, era atterrito Boratto, che ad ogni curva vedeva la morte in faccia. Il risultato al traguardo, nei pressi di Sassuolo, dove era previsto che i quattro si fermassero per il pranzo, fu imbarazzante: Ferrari aveva rifilato più di mezz’ora all’inseguitore. Che, al suo arrivo, fu abbastanza tranquillo: nonostante l’unico testimone oculare, il suo autista, tempo dopo disse il contrario, e cioè che Mussolini era nervosissimo nello sforzo di restare attaccato, affermò di essersi divertito a correre contro un pilota professionista, e che Ferrari gli aveva dato una grande lezione di guida. Per fortuna però, dopo pranzo Ferrari ascoltò i consigli di chi era con lui, e decise di non pigiare a fondo l’acceleratore, sia per evitare il confino (nella migliore delle ipotesi) sia perché l’autista del Duce gli si era avvicinato dicendogli “Vedi che io a casa ho famiglia”, alludendo alla non bassa possibilità di lasciarci la pelle. Nell’ultima parte del viaggio, quindi, i due procedettero ad andatura contenuta, e, quando fu il momento di lasciarsi nei pressi di Pavullo, Mussolini fu ancora prodigo di complimenti verso Ferrari, dichiarando che gli era piaciuta l’esperienza.