“Post fata resurgo”. Letteralmente, “dopo la morte torno ad alzarmi”. Una frase legata all’araba fenice, che risorge dalle proprie ceneri. Un mito, una leggenda che però come per magia si è appropriata della vita reale di tutti i giorni. Nello specifico della vita di un uomo solo, passato addirittura per l’estrema unzione. La vita di Niki Lauda.
Sì, siamo nel 1976 immersi nel Ring, nell’Inferno Verde, decimo appuntamento del mondiale di Formula 1. Spesso il destino agisce dapprima che possiamo accorgercene, in maniera beffarda lanciandoci piccoli segnali. Segnali minimi che arrivano diretti, e che noi invece sottovalutiamo. Certo, è un discorso ex-post, ma è un discorso talmente vero da aver colpito anche il buon Niki prima del GP di Spagna: ufficialmente fu una caduta da trattore ad avvisarlo, ufficiosamente una caduta in sella ad una moto da cross. Si sa che per contratto occorre evitare sport pericolosi ma l’adrenalina, il bisogno di velocità che scorre nel DNA dei piloti è più forte di tutto ciò. Intanto però le costole sono andate, anche se questo non basta a scoraggiare Lauda che, come una macchina, partecipa allo stesso modo al round in terra iberica. Un terzo posto conquistato con fatica, terminando il GP così stremato da non riuscire nemmeno a salire sul podio. Ecco, se credete nel destino, potete ben immaginare che un episodio simile stia come ad accertare che c’è qualcosa nell’aria. Qualcosa di strano, d’impercettibile. Qualcosa che, in quel 1976, rese Niki Lauda protagonista più di ogni altro.
Chiunque dovesse scegliere, da appassionato o addetto ai giochi, un circuito capace di esaltare ed intimidire un pilota, sa che quel circuito è il Nurburgring. Il castello del Nur domina dall’alto il ring. Inaccessibile, come il Partenone che durante la civiltà ellenica custodiva la statua della di Atena – Dea della sapienza delle arti e della guerra e soprattutto divinità che protegge gli eroi positivi -, allo stesso modo il Nurburg lo fa con i piloti, talvolta in modo cinico, beffardo, altre volte donando la vita lì, dove non c’è più. Il buon Sir Jackie Stewart amava dire “Qualunque pilota che afferma di aver amato il Ring mente o non guidava abbastanza veloce”. E’ vero, una minima incertezza, spingersi oltre il limite mentre si attraversa l’Inferno Verde comporta un errore, che a sua volta comporta perdita di secondi o incidenti. Ed un incidente, nel periodo in cui è ambientato il nostro racconto, spesso vuol dire morte. In Germania Lauda arriva con un buon vantaggio da amministrare: ha 52 punti su Hunt, il suo soprannome è “Computer” per via delle sue enormi capacità nello sviluppare la vettura, migliorarla e sfruttarla al massimo. Per farvi capire la sua sensibilità ed il suo essere tutt’uno con la vettura, i meccanici per gioco si divertivano a modificare durante i test, quasi impercettibilmente, piccoli elementi della vettura. Spesso, già dopo il primo giro, il campione austriaco rientrava ai box e si lamentava con tutti, ed i meccanici sotto i baffi se la ridevano. Piccoli siparietti di vita quotidiana, che riflettono un clima di rispetto e ammirazione che però, in puro stile italico, avalla il mantra di non prendersi mai troppo sul serio.
Un mantra che a Niki arriva poco, specialmente quando si fanno le cose sul serio. Un mantra che va a scontrarsi con il pilota perché diciamolo, Niki quando fa il suo mestiere è la persona più seria del mondo, una persona che non demorde mai. Ed è così anche in quel GP di Germania, dove una brutta partenza e delle gomme rain montate su una pista che va asciugandosi lo costringono ad impegnarsi oltre l’indicibile, nel tentativo di recuperare il terreno perso per calzare le slick. Il ‘Ring è una pista anomala, quei 22,835 Km non garantiscono sempre le stesse condizioni. Ma qui, quel 20% di rischio – menzionato nel capolavoro di Ron Howard, “Rush” – che ogni pilota si assume e che viene ricordato dalle parole di Niki, “va farsi fottere”. Il perché? Perché sei un pilota, e per quanto il tuo epiteto sia “Computer” nulla puoi quando l’istinto s’impadronisce di te. Nulla puoi su quel circuito che non perdona, nulla puoi su delle condizioni non ottimali della pista e nemmeno nulla puoi sul tuo ego. Sei così concentrato che superi il ponte Adenau, immettendoti in una lunga curva a sinistra da affrontare tra i 200 ed i 230 km/h come tante altre volte nella tua vita, con la sensazione che nel continuare a spingere riuscirai a colmare il distacco. Ma qualcosa non va. La vettura perde aderenza: il primo istinto è quello di cercare di riprenderla, ma ci vuole fortuna oltre che bravura. E stavolta la fortuna non c’è. Le barriere sono l’unica cosa che ferma la folle corsa: un brutto incidente, con l’aggravante di essere colpito da altre due vetture (quelle di Ertl e Lunger) e di aver perso il casco durante l’impatto. Il corpo della vettura infatti regge all’urto, ma nulla può contro le fiamme: i sistemi di prevenzione sono efficaci solamente per piccoli roghi.
Pochi secondi ed è l’inferno. Le fiamme divampano e avvolgono la vettura e soprattutto te Niki Lauda, campione del mondo arso dal 100% del rischio di morire. Ti dimeni, è l’istinto di sopravvivenza, attimi interminabili mentre un’ombra prova a salvarti, e poi il nulla. Tutto nero. Chissà cosa passa nella testa in quel lasso di tempo, probabilmente nulla o probabilmente tutta la vita. Il tempo non lo conti più, non ne sei in grado, vige semplicemente il vuoto fino a che non ti risvegli. Con un prete che ti dà l’estrema unzione, ormai con un piede nella fossa. Ma te sei un “Computer” e come tale calcoli solo le possibilità che hai non solo di vivere, ma anche di tornare a correre perché correre è la tua vita, la perfetta simbiosi. Ma i sacrifici per tornare a correre quali sono? Qual è il prezzo da pagare? Alto, altissimo, quello che nessuno vede ma che tu vivi sulla tua pelle straziata. Questo prezzo è così alto perché se le ferite sono quantomeno sopportabili nonostante siano strazianti, l’aspetto mentale è quello che la gioca da padrone. Da un lato riesce a darti lo stimolo per farti tornare a correre; dall’altro nella tua testa s’insinua un tarlo, una strana consapevolezza. E’ strana perché il tuo dare il 110% sai che dipende solamente da te ed anzi funge da stimolo, ma allo stesso tempo c’è altro, un avversario sia fisico – che risponde al nome di James Hunt – sia mentale – dal nome di paura.
Passano i giorni, pochi per il dramma vissuto – 42 per l’esattezza – e sei a Monza. In un GP che per te è praticamente di casa, perché sei il pilota di punta della scuderia più importante, con i giornalisti che accolgono la notizia con scetticismo e molti dubbi a riguardo, te che tiri dritto per la tua strada: è il piede destro che conta, in fondo. Non conta nemmeno ringraziare l’ombra che ti ha salvato. Ma la pressione è tanta, e per quanto all’esterno sia retta bene all’interno, per dirla in romanaccio, “E’ n’altro par de maniche”, ed alla fine generi un’incomprensione che durerà per 30 anni. Non solo in questo si nota quella pressione che ti accompagna, ma anche nell’imbottigliamento iniziale in cui rimani coinvolto per la prima volta – senza la giusta e necessaria resistenza – e dal quale riesci a venirne fuori con la determinazione che un uomo abituato a pensare in maniera logica ha. Alcuni lo chiamano cuore, ed i tifosi capiscono questo cuore. La stampa è così entusiasta che rispolvera i fasti di Nuvolari e delle sue eroiche gesta. In tutto questo tripudio te, che sei un uomo di scienza, freddo ed abituato a ragionare, sai che la 312 T2 non è perfetta. Lo sviluppo è stato praticamente affidato a te e manca di almeno 6 settimane di lavoro. Manca un corretto upgrade per migliorare la resa delle gomme quando la temperatura è bassa per via del minore peso al retrotreno. Una falla importante, che arriva nel momento peggiore.
Si arriva così al Giappone, i punti di vantaggio sono 3. Pochi, tremendamente pochi. Una situazione complicata ma che ancora, almeno nei numeri, ti dà il vantaggio. Certo, i numeri sono una scienza esatta, ma per quanto il tuo pensiero sia quello da uomo di scienza dietro a delle semplici cifre c’è molto di più. C’è un uomo, che scopre di essere fatto di sentimenti, di paure, di obiettivi ma pur sempre con un pensiero logico alle spalle. Il pensiero logico s’immedesima in un sillogismo, familiare ai giuristi: “Se A, allora B”, e tenendo conto di molteplici fattori sai che non si deve correre. Che non puoi correre. E’ la logica. Non sempre essa funziona però. Ed è così che, nella terra del Sol Levante, la logica va a farsi benedire: gli interessi esterni sono troppi, si deve correre lo stesso. La testa diviene sempre più pesante, quel famoso sillogismo s’incrina, perché sai – e ti è stato appena ribadito – che per gli altri non funziona così. La griglia è completa, si parte. Quei dubbi si affollano sempre più, sono martelli in testa, la fanno scoppiare e smorzano la forza che fa muovere il piede destro. La stampa dice all’indomani “Il coraggio di aver paura”: chissà se più di aver paura si sia solamente trattato del prevalere della ragione sul cuore. Nessun coraggio, solo un semplice sillogismo, solo un semplice “Se A allora B”. Forse Niki, per dirla alla Fellini in “8 e mezzo”, avrà pensato che “Se non si può avere il tutto, il nulla è la vera perfezione”, morendo per poi rinascere. Lasciando svanire quel sogno, lasciando svanire quella parte di te che da sempre ti aveva caratterizzato ma che ora va rivista, sotto una nuova luce. Con una nuova consapevolezza.