Abbiamo intervistato, in esclusiva per Fuori Traiettoria, Alex Caffi, pilota di Formula 1 dal 1986 al 1992, vincitore della 24 ore di Spa e attualmente team manager del suo team in EuroNascar.
Fuori Traiettoria: Ciao Alex, e grazie per la disponibilità. Partiamo da un fatto curioso della tua carriera in Formula 1: nel 1988, dopo due stagioni con la Osella, passi alla Scuderia Italia. Nel primo GP stagionale in Brasile avviene un fatto curioso, poiché il team schiera una vettura di Formula 3000, e ciò ovviamente non ti permette di qualificarti. Come mai è successo ciò?
Alex Caffi: Ciao ragazzi. Allora, in quell’occasione successe che l’auto per la stagione non era ancora pronta, e per non pagare la penale abbiamo dovuto disputare le qualifiche con un motore 3000 e gomme da Formula 1. Questo perché facendo un bilanciamento di costi ci siamo resi conto che conveniva di più andare, fare qualche giro e tornare, e infatti andammo lì solo per quello.
FT: Nella stagione successiva, il 1989, la Scuderia Italia migliora molto, e sei in grado di fare buoni exploit, come il quarto posto di Monaco, il terzo in qualifica a Budapest e il podio sfiorato a Phoenix. Era una macchina che si adattava bene a quella tipologia di circuiti, o eri tu a preferire i tracciati stretti e angusti?
AC: Diciamo entrambe le cose. La Dallara era una macchina molto buona in trazione, e con il motore Cosworth era molto agile. Però è vero anche che piacevano quei tipi di circuiti, soprattutto Monaco. Però forse il momento che ricordo di più è la qualifica di Budapest: primo perché la qualifica forse è il momento più intenso per un pilota, in cui bisogna dare tutto, e poi perché mi misi dietro diversi bei piloti, a cominciare dalla Williams di quel grande campione che era Riccardo Patrese, ma anche le Ferrari, ecc. Fu una bella stagione, peccato solo per il podio sfiorato a Phoenix.
FT: Nel 1989, per il grandissimo numero di iscritti, trentanove, vennero reintrodotte le prequalifiche, a cui la Scuderia Italia prendeva parte. Qual era lo stato d’animo di una scuderia di metà classifica, sapendo che c’era la possibilità di arrivare in circuito e terminare il weekend prima che questo iniziasse?
AC: In realtà, noi eravamo abbastanza tranquilli, sia noi che la Brabham, perché eravamo abbastanza competitivi. Solo un paio di volte non mi sono prequalificato, per problemi alla macchina, ma perché lì il tempo era poco, e mentre cercavi di arrivare ai box a prendere il muletto erano già finite. Però era anche un modo per fare delle prove extra e mettere a punto la macchina: un po’ come succede adesso in MotoGP, in cui a volte la pole la fa un pilota che è passato dal Q1, proprio perché ha avuto del tempo extra.
FT: Passiamo al 1992: in quell’anno firmasti per la Andrea Moda, ma dopo che l’iscrizione del team venne rigettata a Kyalami non prendesti parte alla stagione. Come avvenne l’allontanamento?
AC: Con l’Andrea Moda fu complicato. Io rimasi attratto soprattutto perché utilizzavano l’attrezzatura della Coloni, che l’anno precedente era andata abbastanza bene. Poi avevo visto la macchina, che derivava dalla BMW. Tra l’altro, di recente ho visto che quella macchina la spacciano per una Williams, mettendoci su la livrea Rothmans. Comunque, i problemi in quel periodo erano più che altro finanziari, anche perché in quel periodo c’erano team che correvano con anche meno budget. Successe che alla prima gara, a Kyalami, ci rifiutarono l’iscrizione, perché c’era una tassa da pagare che Andrea Sassetti (il capo del team, ndr) non pagò, sostenendo che siccome aveva prelevato il materiale dalla Coloni non fosse necessario. Probabilmente però lì c’era anche che questa figura (Sassetti ndr) non piaceva ad Ecclestone, perché quella squadra, se qualcuno avesse voluto, sarebbe potuta essere aiutata. Comunque, viene pagata l’iscrizione, ma alla seconda gara, Città del Messico, la vettura non era ancora pronta. A quel punto andai da Sassetti e gli dissi che non potevo continuare ad andare ogni weekend alle gare senza sapere se sarei salito in macchina. Anche perché io venivo comunque da un’esperienza di team di mezza classifica ben organizzati, come la Osella, la Scuderia Italia e soprattutto la Footwork, che aveva un’organizzazione pari a quella della Mclaren. Ma questo comunque non ha influito sul mio rapporto con Sassetti, anche perché ancora adesso siamo ancora amici.
FT: Dopo la fine dell’esperienza in Formula 1 sei passato alle ruote coperte. Quali sono le principali differenze tra i due ambienti, oltre che a quelle tecniche?
AC: Gli ambienti sono molto diversi. All’epoca era come se ci fosse la Formula 1 sopra tutti e il resto sotto. Oddio, forse anche adesso è così, ma ci sono più casi in cui un pilota imposti la carriera per finire nel GT. Ovviamente, le principali differenze sono quelle tecniche, con il fatto che le vetture sono meno potenti e meno incollate al suolo. Però io sono uno che ama quello che fa, quindi posso dire che mi è piaciuto correre in diverse categorie, GT, endurance, rally, cronoscalate, ecc, anche perché io sono cresciuto in mezzo a dei “pilotoni da bar”, che dicevano che “Ah, i migliori piloti sono quelli di rally” o cose così. E quindi ho voluto fare un po’ di tutto per giudicare.
FT: E tra tutte le classiche dell’endurance che hai corso, Spa, Daytona, Sebring, Le Mans, eccetera, qual è la tua preferita?
AC: Forse Daytona. Perché è la più affascinante, con il banking dell’ovale, e anche perché è la meno faticosa, perché si può correre in quattro o in cinque piloti. Però ognuna ha le sue caratteristiche: Sebring, ad esempio, è la più faticosa, e nonostante siano solo dodici ore è come se fossero trentasei di Daytona! La pista è in cemento, e quindi è piena di scossoni ed è molto scivolosa quando piove. Poi c’è Spa, in cui ovviamente il problema è il meteo, perché è molto variabile, con pioggia, vento, ecc. E infine c’è Le Mans, che racchiude un po’ il meglio delle altre, però forse per questo mi è sempre piaciuta meno delle altre, soprattutto rispetto a Daytona. Anche perché, rispetto a questa, correndo in tre è molto più faticosa.
FT: E tra tutte le macchine cha hai guidato, invece, qual è la tua preferita?
AC: Ne ho guidate tante. Se devo scegliere, ne dico due: la Dallara del 1989 sicuramente è la prima. Tra l’altro, di recente sono anche riuscito ad averla per me. L’altra invece è la Osella, ma non quella da F1, ma la FA30 con cui ho fatto le cronoscalate.
FT: Ora sei impegnato con il tuo team di EuroNascar. Quando guidavi immaginavi che la tua carriera avrebbe preso questa strada? E, se sì, è stato come te l’aspettavi?
AC: Quando correvo non immaginavo di andare al muretto. Io ho corso fino ai cinquant’anni, anzi, quarantanove, perché l’ultima stagione completa l’ho fatta nel 2013. Anche se, ci tengo a dire, ancora oggi non ho annunciato il ritiro, visto che due-tre gare l’anno ancora le faccio. Comunque, ad un certo punto è arrivato il momento in cui mi sono chiesto cosa fare da grande, come si dice. E allora ho fatto come tanti ex calciatori che passano ad allenatori. Solo che ho voluto farla a modo mio, e non volendo andare in un team altrui ho deciso di fondare il mio.
FT: Ecco, tu hai fatto il paragone con il calcio, in cui generalmente gli allenatori sono ex calciatori. Nel motorsport però, il team manager spesso non è un ex pilota, visto che abbiamo visto anche ingegneri, persone provenienti dall’ambito commerciale, o altro. Quale pensi che siano i vantaggi di intraprendere questa carriera dopo essere stato un pilota, e quali li svantaggi?
AC: Bisogna fare un distinguo: in F1 è politica, quindi non serve necessariamente un pilota. Basta anche un avvocato. A quei livelli avere un pilota non è fondamentale, anche perché i piloti sono già formati, perché hanno già dietro tutto un percorso formativo, non hanno bisogno che qualcuno dica loro cosa fare. A livelli più bassi, invece, avere un pilota come capo che possa dare dei suggerimenti, anche per la guida, è sicuramente meglio.
FT: Cosa differenzia questa categoria rispetto alle altre più europee?
AC: L’EuroNascar è un campionato interessante. Penso che sia particolarmente bello il fatto che abbiano preso il format americano e l’abbiano portato in Europa. Poi certo, a differenza del campionato americano, va detto che il rapporto tra ovali e piste stradali è più a favore delle stradali, anche se fino a qualche anno fa c’erano comunque degli ovali nel calendario.
FT: Nel 1989, anno in cui hai ottenuto i tuoi migliori risultati, i piloti italiani erano la maggioranza. Negli ultimi dieci anni, invece, in F1 abbiamo avuto un solo pilota, e adesso nessuno. Quali pensi siano le principali cause?
AC: Nel 1989 sarebbe stato impossibile ipotizzare un pilota cinese, così come sarebbe stato impossibile ipotizzare che non ci sarebbero stati italiani nel 2022. Purtroppo queste cose dipendono da porte che si aprono e porte che si chiudono, e l’Italia è rimasta fuori. Guarda ad esempio la Germania: non hanno avuto in pilota per anni, poi arriva Schumacher che vince tutto e dopo di lui seguono Frentzen, Rosberg e Vettel, per esempio. Probabilmente prima o poi le porte si riapriranno anche per l’Italia.
FT: Segui ancora la Formula 1?
AC: Beh a seguire seguo, perché comunque si tratta della mia passione. Però non sono uno di quelli che appena c’è la gara si isola, se non ho nulla da fare la guardo, altrimenti non è un problema.