Benvenuti al secondo appuntamento con Formula Nera: la serie in cui vi raccontiamo il lato oscuro del motorsport. Nel primo episodio abbiamo parlato della Spy Story del 2007, oggi invece tratteremo il rapimento di uno dei piloti che hanno scritto la storia della Formula 1: Juan Manuel Fangio. Mettetevi comodi e preparatevi per un secondo viaggio tra le pieghe nascoste del Circus.
Ci sono storie in cui il finale cela un dettaglio che stravolge la chiave di lettura dell’intero racconto. Un po’ come accade in Shutter Island di Martin Scorsese, dove l’ultimo scambio di battute trasforma radicalmente tutto il film proiettando un punto di vista inedito nella mente ancora confusa dello spettatore.
Ma questo espediente narrativo, così efficace in un film, deve rimanere in quell’ambito: nelle opere di fantasia.
Per i casi di cronaca, come quello che racconteremo oggi, è opportuno avere in mano il quadro completo della situazione sin dal principio. Quindi, dato che il finale di questa strana storia contiene un particolare fondamentale, partiamo proprio da quelle che sarebbero dovute essere le ultime righe del racconto.
La nostra storia finisce quindi a Buenos Aires, in Argentina, nel Febbraio del 1995.
La località è ironicamente la stessa da cui iniziammo la narrazione del caso Spy Story, ma la circostanza è completamente diversa: questa volta non ci troviamo in un paddock di Formula 1, bensì in una grande villa nel cuore della capitale sudamericana.
Al centro di una delle stanze c’è un anziano signore immobile su una sedia. Ormai i mesi che gli restano da vivere può contarli sulle dita di una mano.
E’ debolissimo: forse ha appena l’energia per seguire con gli occhi i granelli di polvere a mezz’aria su cui si rifletteva l’opaca luce che filtrava dalla finestra.
Delle voci provenienti dal corridoio richiamano la sua attenzione, il signore alza lo sguardo mentre un’inserviente apre la porta e fa cenno di entrare con la mano: “Prego, si accomodi”.
Una sagoma si fa avanti camminando verso il vecchio.
Quest’ultimo strizza gli occhi cercando di capire chi abbia davanti. Ma la vista non è più la stessa di un tempo e riesce a riconoscerlo solamente quando l’uomo si trova ormai a pochi passi di distanza.
“Arnol… Cuba…!” esclama con un filo di voce l’anziano. Cerca di alzarsi in piedi, ma ricade immediatamente sulla sedia.
“Non sforzarti Manuel, che già ho rischiato di ammazzarti una volta“ ridacchia l’uomo. Manuel sorride.
Non si vedevano da tanto, ma i due sono amici, sebbene trentacinque anni prima uno avesse avuto la pistola puntata al costato dell’altro.
Perché sì: sono le 19.30 del 23 Febbraio 1958, e Arnol e Manuel si trovano nella stessa sala dell’Hotel Lincoln di L’Avana, Cuba.
Manuel è l’uomo del momento: famoso in tutto il mondo perché come nessuno sa spingere quelle quattro lamiere su ruote che la gente del tempo chiama “Formula 1“. Non solo: quel Sabato l’Argentino aveva fatto registrare il miglior tempo di giornata, riuscendo quindi a conquistare la pole-position nell’evento che rappresentava il fiore all’occhiello del governo dell’epoca: il Gran Premio de L’Avana.
Arnol invece è un rivoluzionario fedelissimo a Fidel Castro. Nel 1958 l’isola caraibica è infatti retta dal regime filo-americano di Batista, ma spezzata in due da crescenti tensioni interne che portano i dissidenti ad armarsi e a diventare a tutti gli effetti dei gruppi terroristici.
Arnol Rodriguez è a capo di una di queste guarnigioni, con tredici membri all’attivo e l’unico scopo di attirare gli occhi del mondo sulla corruzione dilagante nel Paese.
Quella sera tutta la banda del Movimento 26 Luglio -così si definiscono Rodriguez e soci- è presente nei pressi dell’Hotel Lincoln. Nella snervante attesa tutti provano a integrarsi nell’ambiente: qualcuno si accende un sigaro e comincia a boccheggiare stressato, altri fingono di chiacchierare disinteressatamente per non attirare l’attenzione.
Le porte dell’ascensore della hall si aprono. Sistemandosi la camicia, Fangio esce e raggiunge un paio di amici vicini ai divanetti. Arnol fa un cenno col capo a un altro membro del Commando, Manuel Uziel: il momento è giunto.
Uziel comincia a camminare a passo veloce verso il campione argentino: “Sei Fangio?”, gli domanda con tono nervoso. Il pilota ridacchia credendo si tratti di uno scherzo. Presto però il rapitore gli punta una pistola al costato: “Seguici. E che nessuno si muova! -strilla Uziel- Per i prossimi cinque minuti avremo quattro mitragliatrici puntate a tutte le uscite dell’albergo.”
Fangio, con una calma surreale, segue i rapitori all’esterno dell’edificio dopo aver indossato un berretto ed un paio di occhiali scuri. Lì sono parcheggiate due macchine e il pilota viene fatto salire sulla prima. Il motore si accende e la vettura parte a tutta velocità.
La seconda automobile invece, dopo alcuni problemi nell’accensione, si appresta a scortare la piccola carovana quando qualcuno le taglia la strada uscendo non curante da un parcheggio. Il guidatore non ha il tempo di frenare e l’incidente è inevitabile. Una pattuglia della polizia che transitava in zona nota l’impatto e chiude immediatamente la strada.
Fangio è ormai lontano, ma tutti i componenti della banda sono già schedati. Non possono permettersi ulteriori rogne. Angel Paya Garcia recupera tutte le armi dei compagni e si allontana a piedi dalla scena, lasciando gli altri ad una constatazione poco amichevole.
La macchina superstite corre nei labirintici vicoli de L’Avana fino a quando non si arresta davanti ad un condominio popolare. Fangio incrocia gli occhi con i rapitori, tutti perplessi ad esclusione dell’autista. “Cosa ci facciamo qui?!”, urla qualcuno dai sedili posteriori.
“Solo cinque minuti”, lo prega il guidatore.
Il gruppo apre le portiere scocciato e comincia a salire le scale.
Quella che nella testa di Fangio poteva sembrare una banda di pericolosi criminali presto si rivela per ciò che veramente è: un gruppo di studenti antagonisti del regime di Batista che, nonostante le armi in pugno, non farebbero del male ad una mosca. Una disneyana Banda Bassotti, più che un manipolo di spietati sicari. L’edificio presso cui si erano fermati, infatti, era l’abitazione del conducente che voleva presentare il leggendario campione argentino alla moglie e al figlio. Dopo una rapida stretta di mano con la signora e un autografo dedicato al bambino, Fangio e i rapitori tornano in macchina per raggiungere il vero nascondiglio. Al loro arrivo però, il gruppo trova un giovane uomo sdraiato su un divano pregno di sangue: è un ribelle ferito, preso in cura dai compagni. “Non potete restare qui”, urla uno di questi alla Banda del 26 Luglio. Mentre i rapitori discutono nervosi su dove portare il campione argentino, il ragazzo ferito alza lo sguardo e sussurra al pilota: “Non preoccuparti: sei in buone mani”. Chissà se Fangio ne fu convinto, vista la sequenza di grottesche vicissitudini ai limiti del comico susseguitesi fino a quel punto.
Il gruppo identifica l’ennesimo potenziale nascondiglio, la casa di Arnol, e lo raggiunge il più in fretta possibile: ormai la notizia del rapimento si era diffusa a macchia d’olio e la capitale era assediata da posti di blocco delle Forze dell’Ordine. Lì Fangio viene accolto con una cena di prima classe preparata da Aymee Moran, una delle donne coinvolte nell’operazione: bistecca, insalata, patate, formaggio e pesche. Juan Manuel è solamente l’uomo di cui hanno bisogno, non un nemico, e come tale deve essere trattato: prima di farlo riposare nella camera da letto della madre di Arnol, i guerriglieri gli espongono le loro ragioni, che Fangio ascolta attentamente.
La notte trascorre serena, nonostante il rumore delle sirene della polizia che rimbomba incessantemente per tutti i vicoli della città: Batista è furioso, i ribelli hanno compromesso il suo grande evento e lo hanno messo in ridicolo dinnanzi al mondo intero. Tutte le rotative del globo stanno infatti sputando incessantemente copie di giornali con l’accaduto piazzato in prima pagina: “Juan Manuel Fangio è stato rapito”. Con il sorgere dell’alba i quotidiani passano di mano in mano e bocche da ogni dove non fanno altro che discuterne. Il pilota sta bene, ma nessuno può saperlo. La pressione sugli organizzatori dell’evento cresce di minuto in minuto. Il fine settimana si è già aperto con una tragedia: durante le prove del sabato Diego Veguilla, probabilmente iscritto a una categoria di supporto alla Formula 1, ha perso il controllo della vettura uscendo di strada. La macchina si è ribaltata e ha preso fuoco: per il pilota non c’è stato nulla da fare. Le fonti su questo incidente sono quasi inesistenti. L’auto su cui viaggiava resta ignota e all’epoca venne registrata come ‘Mike Special 2000’. Uno dei pochissimi ad azzardare una dinamica della fatalità fu Tom Cotter nel libro ‘Cuba’s car culture’. Secondo il giornalista, lo sterzo della vettura di Veguilla cedette ad alta velocità lungo il rettilineo del Malecòn, l’auto schizzò fuori dalla carreggiata e, dopo essersi ribaltata, impattò contro un palo della luce. Il pilota venne sbalzato fuori dall’abitacolo e colpì il palo a propria volta morendo sul colpo. Il serbatoio, danneggiato, esplose inghiottendo i rottami nelle fiamme. Tuttavia nulla di ufficiale è attualmente reperibile, tanto che nemmeno il luogo di nascita di Veguilla è privo di dibattito: alcune fonti lo danno come ‘pilota locale’, altre lo schedano come nato a Porto Rico. Questa parentesi, apparentemente poco significativa ai fini della storia, ci aiuta invece a capire la situazione di Cuba in quegli anni: insabbiamenti e omertà erano le armi preferite dal regime per preservare una buona reputazione nel mondo. Non stona quindi l’idea del Movimento 26 Luglio secondo cui l’unico modo per attirare gli occhi sull’isola fosse quello di fare un colpo dalle dimensioni inimmaginabili, come appunto rapire una delle persone più celebri del tempo.
Ma torniamo a noi: è lunedì 24 Febbraio 1958 e mancano oramai poche decine di minuti all’inizio della gara. A Batista è stato recapitato un messaggio in cui Fangio dichiara di essere vivo, ma il campione ancora non è stato liberato. Gli organizzatori hanno i nervi a fior di pelle: la casella del polesitter è ancora vuota e ormai il tempo a disposizione è agli sgoccioli. Non si può semplicemente dire a 150 mila spettatori presenti a Cuba e alle TV di mezzo mondo “Non se ne fa niente”, soprattutto dopo aver già posticipato il via di due ore: lo spettacolo deve continuare.
Dall’altra parte della città Fangio, seccato ma non arrabbiato, chiede ai rapitori di poter seguire la corsa. Aymee Moran ricorda di avergli acceso il televisore e che insieme si fossero seduti per guardare la partenza. Fangio provava a non farlo notare, ma vedere la sua piazzola vuota, quella della prima posizione, era frustrante. Alle 15.20 ora cubana la bandiera verde sventola sul Gran Premio de L’Avana. I bolidi cominciano a divorare l’asfalto mentre Fangio li osserva da qualche chilometro di distanza. I suoi occhi seguono in particolare le prestazioni di Maurice Trintignant, che ha ereditato la sua monoposto numero 2.
Ventisette piloti si danno battaglia tra le strade della capitale per appena tredici minuti: nel corso della sesta tornata la Ferrari Testa Rossa del pilota locale Armando Cifuentes perde aderenza e vola sulla folla di appassionati situati a bordo pista nei pressi -quasi per macabra ironia del destino- dell’ambasciata americana. Anche questo incidente ha dell’incredibile, come il fatto che il pilota sia stato accusato di strage mentre ancora era ricoverato, ma esaminare il caso nel dettaglio richiede un articolo a parte. Quello che è importante ai fini del racconto sono i quaranta corpi che restano a terra sul selciato, sette dei quali moriranno nelle ore successive. Cifuentes è vivo ma gravemente ferito e viene trasportato d’urgenza all’ospedale. La gara viene sospesa e in seguito cancellata dopo appena trenta chilometri. A vincere è Stirling Moss su Ferrari, ma ormai non importa a nessuno. Dalla casa di Arnol nulla è sfuggito allo sguardo di Fangio, che chiude gli occhi per qualche secondo e sussurra “…spegni”. Lo schermo del televisore diventa nero accompagnato dal classico rumore elettrizzato.
“Potrebbe essere che io debba pure ringraziarvi tra qualche anno”, bisbiglia sottovoce il pilota. Fangio ha infatti sempre creduto nel destino e le immagini dell’incidente, nella sua testa, hanno appena trasformato il rapimento da una scocciatura a un atto della Provvidenza. Il campione argentino, segnato da questi avvenimenti, si ritirerà dalla Formula 1 proprio al termine del campionato 1958.
Un clima desolante invade l’abitazione. Nessuno parla. La gara è ormai finita e ai ribelli non resta che liberare il prigioniero. Per evitare di lasciarlo andare senza protezione (Batista avrebbe potuto farlo uccidere per accusare i rivoltosi), il Movimento chiama direttamente l’ambasciata argentina. Le due parti si incontrano all’interno di un edificio prestabilito e la tensione si può tagliare con un coltello. Fangio rompe il ghiaccio esclamando con aria tranquilla “lasciate che vi presenti i miei amici rapitori”, prima di salutare ciascuno di essi con un’ultima stretta di mano la mano. “Ci scusammo formalmente, gli promettemmo che lo avremmo invitato come ospite d’onore alla vittoria della rivoluzione e ce ne andammo”, dichiarò anni dopo Rodriguez alla rivista Wheels Magazine.
Chi può dire per quale motivo Juan Manuel strinse un rapporto così solido con i guerriglieri? Stessa visione politica? Sindrome di Stoccolma? Per averlo tirato fuori da quella tragica gara?
Nel corso degli anni il campione e i ribelli restarono in contatto: Arnol Rodriguez venne invitato ad essere membro onorario della Fondazione Fangio; viceversa, l’Argentino nel 1981 si recò a Cuba per incontrare Fidel Castro e i rapitori, ormai al governo del Paese da diversi anni. Lo stesso Rodriguez ricorda come “suo fratello mi disse di aver visto Juan Manuel piangere raramente, e l’incontro del 1981 fu una di quelle volte“.
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