Quando Ayrton Senna è scomparso io avevo poco meno di un anno d’età. Non l’ho visto esordire, non l’ho visto correre, non l’ho visto andarsene. Sono cresciuto mentre l’eco del suo mito faceva l’esatto contrario di ciò che ci si aspetterebbe da un eco: cresceva, cresceva a dismisura con il passare degli anni.
Ayrton Senna l’ho conosciuto tramite i racconti di mio padre che lo aveva visto correre, grazie agli articoli e ai libri letti nel corso degli anni, con i video trovati in rete navigando controcorrente al mare di ricordi. Fonti diverse, informazioni raccolte man mano, che raccontavano un’unica versione. Senna, dicevano tutte, è un’iradiddio. Una umanamente complessa, straordinariamente sfaccettata, iradiddio.
Competitivo all’inverosimile, agonista purissimo, talento cristallino. Ma anche sensibile e premuroso, credente oltre ogni aspettativa, umano nell’avere un’intima fragilità che oggi tutti giurano di vedere in quel suo sguardo unico e caratteristico. Un pilota – una persona – estremamente difficile da sondare e comprendere, piena di chiaroscuri e contrasti che persino chi ha condiviso una parte della propria vita con lui non è riuscito del tutto a capire. Parlare di Ayrton Senna, grazie alla mostruosa quantità di testimonianze e ricordi emersa nel corso degli anni, è facile. Raccontare Ayrton Senna, descrivere ciò che tutti giurano di vedere ma che pochissimi hanno visto davvero, facile non lo è affatto.
In occasione del trentennale della sua scomparsa abbiamo assistito a una vera e propria orgia di indebite appropriazioni della memoria del pilota brasiliano. All’improvviso, tutti sapevano tutto. Cosa pensava, cosa diceva, come viveva: ogni dettaglio della sfera privata di Ayrton Senna è parso diventare di dominio pubblico. Mentre chi lo ha conosciuto davvero si è defilato con rispetto dal cono di luce che con forza ha ricominciato a illuminare l’eredità totale del brasiliano, in molti – in troppi – si sono fatti largo sgomitando fin sotto i riflettori pur di brillare un poco grazie alla luce riflessa dal ricordo di Ayrton Senna.
Quando ho saputo che Netflix stava lavorando alla realizzazione di una serie dedicata al pilota più famoso nella storia della Formula 1, quindi, mi sono ritrovato a essere combattuto tra paura e speranza. Mi chiedevo se ci saremmo ritrovati alle prese con un racconto totalmente informe di una personalità che tutti descrivono come caleidoscopica, e allo stesso tempo mi domandavo se una produzione brasiliana come lui, vicina al mondo che Senna ha influenzato così tanto, avrebbe potuto essere il tramite giusto per far conoscere al grandissimo pubblico una leggenda di simile portata. Sospeso com’ero tra questi due poli, qualche giorno fa ho premuto il testo “Play” sul primo dei sei episodi di “Senna” che ho potuto vedere in anteprima e che ora è disponibile per tutti su Netflix: dovevo scoprire se ad avere ragione fosse la paura oppure la speranza.
La serie, prodotta da Fabiano Gullane e Caio Gullane, si propone di raccontare in sei episodi da circa 60’ ciascuno la vita, la carriera e la fine di Ayrton Senna da Silva. Inseguendo un bambino brasiliano alle prese con i primissimi metri percorsi al volante di un kart regalato da papà Milton ci si ritrova catapultati nel Norfolk, nella nebbiosa Inghilterra, prima che dubbi laceranti e promesse che avrebbe voluto poter non mantenere riportino a casa quel bambino ormai ragazzo attraversando un oceano di rimpianti. Telefonate incorniciate da uno dei tanti successi pop degli anni ’80 posizionati strategicamente qua e là nelle puntate ridanno speranza, un talento esagerato e una competitività fuori dal comune conducono attraverso il Purgatorio delle Formule minori fino al Paradiso della Formula 1. L’epifania della pioggia regala la certezza della grandezza mentre l’azione in pista si fa sempre più veloce e serrata, Alain Prost si oppone a un dominio altrimenti incontrastato, l’ossessiva ricerca del successo ci mette di fronte a Dio una volta di troppo, un’ultima volta. Alternandosi tra sfondo e primo piano, amori e affetti cercano di ritagliarsi uno spazio all’interno di un’anima che solo alla fine, solo quando sarà ormai tardi per rallentare, avrà ammesso a sé stessa e agli altri di essersi sempre mossa troppo veloce.
Vicente Amorim e Júlia Rezende, i registi di “Senna”, romanzano quanto basta una vita che già di per sé pareva partorita dalla mente di un produttore cinematografico per far sì che il respiro e il battito dello spettatore vadano al ritmo di quelli del brasiliano. Sfruttando a dovere una buona e non stucchevolmente epica colonna sonora e una CGI che sembra però perdere concretezza man mano che ci si addentra nella serie, Amorim e Rezende riescono a dare un ritmo serrato a ogni puntata. Pure alternando momenti di riflessione indotti dalle incertezze di Senna o di chi lo circonda a picchi di pathos inevitabilmente legati ai momenti indimenticati della carriera del brasiliano, “Senna” induce lo spettatore nella piacevole tentazione di proseguire la visione: un qualcosa di assolutamente non scontato quando si è alle prese con la narrazione di una storia la cui fine è purtroppo nota a tutti.
Accompagnati da Laura Harrison, fittizia giornalista interpretata da Kaya Scodelario, e di Marcelo, giovanissimo tifoso paulista la cui crescita accompagna la vita di Ayrton Senna, ci si ritrova quasi inspiegabilmente incuriositi da un percorso del quale già si conosce ogni curva. Gabriel Leone, chiamato all’interpretazione di un uomo mai del tutto interpretato, in questo senso fa il suo: pur privo dell’apparente malinconia che sembrava abitare negli occhi di Senna e forse troppo spesso munito di una sicurezza vagamente statunitense che cozza un po’ con il ricordo e lo spirito del pilota brasiliano, Leone fa affezionare alla rappresentazione dell’uomo che impersona. Empatizzare assieme a lui con i rivali, gli uomini e le donne apprezzati da Senna risulterebbe straordinariamente facile per un profano, così come altrettanto facile sarebbe per quest’ultimo detestare chi ha portato ombre nella carriera scintillante del pilota brasiliano. Da questo punto di vista, il fatto che la produzione della serie sia brasiliana non ha aiutato in modo particolare per quanto riguarda l’imparzialità della narrazione.
La vicinanza emotiva e geografica ha però forse portato in dote la particolare cura con cui, in più puntate e abbandonando un’iniziale color correction fin troppo simile a “Rush”, sono riprodotte colorazioni, situazioni, movenze ed espressioni inconfondibilmente legate ad alcuni dei momenti più famosi della vita del brasiliano. È molto facile riconoscere nelle sequenze dedicate all’ultimo weekend di gara di Senna gli scenari e le luci mostrate dagli scatti di Noiro Koike e Keith Sutton, e altrettanto facile è notare la verosimiglianza delle scene che raccontano il dolce e doloroso epilogo del Gran Premio del Brasile del 1991. Nel momento in cui la CGI sembra perdere di sostanza, il realismo del racconto si appoggia a un piacevole e misurato mix tra riproduzioni attente di scene famosissime e le vere immagini dei GP, inserite nelle TV di chi nella serie segue da remoto l’epopea di Senna. In questo turbinio di monoposto lanciate a tutta forza nei circuiti del globo si inseriscono le interpretazioni dei vari Prost, Balestre, Dennis, Fullerton, Xuxa, Milton, Zaza, Lilian, Galvão: nessun attore è fuori posto, e il sistema di interazione tra i vari elementi funziona bene.
“Senna” si prende la briga di affrontare la vita del brasiliano nella sua interezza, non disdegnando però di indugiare su dettagli che faranno felici i più fervidi sostenitori del fenomeno paulista. Persino il comparto tecnico legato al Motorsport fa una discreta figura. Certo, le due marce scalate con il cambio già bloccato in 6ª a Interlagos nel 1991 avrebbero potuto essere evitate, così come risulta difficile pensare che Senna sfruttasse il suo particolarissimo uso dell’acceleratore in piena uscita dalla Variante Ascari, ma si sono visti scempi ben peggiori in tempi recenti. Sì “Lamborghini”, sto guardando proprio te. I puristi lamenteranno – in alcuni casi giustamente – le solite imprecisioni dal punto di vista sonoro e le tipiche inesattezze con il cambio che affliggono le produzioni cinematografiche motoristiche sin dalla notte dei tempi, ma svestendo i pedanti panni del bacchettone non è affatto impossibile lasciarsi trascinare tra le stradine di Monaco, tra i cordoli dell’Estoril, tra le curve di Suzuka o dovunque altro il pilota brasiliano decida di condurci alla velocità della luce.
Tuttavia, così come l’animo del protagonista di cui si narrano le gesta, anche la serie su Ayrton Senna presenta dei coni d’ombra. Alcuni più densi di altri.
La fretta, in alcune situazioni narrative, la fa forse troppo da padrone. Diversi personaggi che hanno avuto un impatto concreto sulla vita del brasiliano sono presentati ex abrupto e senza un minimo approfondimento necessario, e per uno spettatore casuale potrebbe risultare a volte difficile comprendere perché Senna abbia avuto con loro un rapporto particolare o perché storicamente abbiano influito in positivo e in negativo sulla vita del brasiliano. Anche il tema dell’ossessività e della maniacalità del brasiliano è forse toccato con eccessiva leggerezza: dai racconti che di lui fa il mondo, Senna era condannato a essere il migliore in modo ben più tormentato e sofferto rispetto a quanto mostrato a schermo. Non solo voleva essere il migliore ma sapeva di essere il migliore, e questa consapevolezza lo costringeva a forzarsi oltre ogni ragionevole limite per dimostrare che ciò che sentiva nel profondo dell’animo fosse effettivamente vero.
Tenendo a mente la volontà di romanzare un minimo la vita di Senna è poi possibile – seppure con molta fatica – soprassedere sulle modifiche apportate alle ricostruzioni di alcuni weekend storici e sulla mancanza di alcune gare che hanno contribuito a creare la leggenda del brasiliano. Più difficile, invece, è andare oltre il modo in cui sono rispettivamente appena accennati e non trattati due temi centrali nell’esistenza di Senna: la sua urgenza di sdebitarsi verso un popolo che gli dava così tanto e una terra a cui non ha mai smesso di appartenere, e il suo intimo e intenso rapporto con Dio. Se il primo aspetto fa capolino in una manciata di situazioni non riuscendo però ad attecchire con profondità al di fuori dello schermo, il secondo è addirittura quasi del tutto assente. Il legame che Senna avvertiva con Dio, stretto al punto da instillare nel brasiliano la convinzione di essere giustificato dal compiere azioni estreme, brutali e persino scorrette, non emerge in alcuna situazione. Certo, l’Altissimo è citato en passant in almeno un paio di occasioni, ma nessuna di loro è sufficiente per far comprendere a uno spettatore estraneo al mondo di Senna quanto stridente fosse il contrasto tra ciò che il brasiliano sentiva nell’anima e quello che invece mostrava in pista. L’omissione di questo aspetto così intimamente nascosto è probabilmente frutto di una scelta ragionata, figlia tutto sommato legittima della difficoltà di raccontare un personalissimo rapporto con un’entità sovrannaturale, ma impatta inevitabilmente sulla complessità dell’uomo Senna privandolo di una delle caratteristiche che più l’hanno reso unico e irripetibile.
Nonostante queste imprecisioni e mancanze, forse più volute che involontarie, “Senna” è comunque un prodotto cinematografico valido e piacevole da guardare. La serie funziona, ha ritmo e mordente, e contribuisce a far conoscere storia e vita particolarissime di un uomo straordinariamente fuori dal comune. Le sequenze di azione sono tutto sommato gradevoli e coinvolgenti, le sinergie tra gli attori funzionano bene e l’epicità del racconto, derivata dalla irripetibilità della vita di Ayrton Senna da Silva, tiene senza sforzo con gli occhi incollati allo schermo. Ha delle omissioni, certamente, ma avrà il merito di far conoscere Senna a un numero ancora maggiore di persone, spingendo alcune di loro ad approfondire magari proprio quegli aspetti che un po’ sfuggono alla narrazione. È una serie che dentro di sé ha luci, ombre e uno scopo. Esattamente come lui, esattamente come Ayrton Senna. E forse va bene così.