Esistono date che restano impresse nella mente più di altre. Compleanni, anniversari, ricorrenze particolari. Tutti giorni che, per quanto possiamo sforzarci, restano ancorati ad un angolo del nostro cervello senza che questi se ne vadano mai, ritrovandoli anche parecchi anni dopo averli appresi senza sapere come abbiano fatto a rimanere nella nostra memoria per così tanto tempo. Per quanto riguarda la Formula 1, e in special modo la Ferrari, una data importante, forse la più importante di tutta la sua storia, è l’8 ottobre. Una data che ha dato tanto alla Casa di Maranello, ma che ha anche tolto altrettanto.
In fondo, nella simbologia, l’8 è il numero dell’equilibrio cosmico, ed effettivamente, quando si pensa a questa data in chiave Ferrarista, si può rivenire una sorta di sostanziale equilibrio tra gioie e delusioni. Nel 1978, Gilles Villeneuve conquistò in questo giorno la sua prima vittoria in carriera, proprio nel circuito che adesso porta il suo nome, quello di Montreal, nel suo Canada. Nel 2017 invece, al termine di un trittico asiatico semplicemente disastroso, Sebastian Vettel ruppe una candela nei primi giri del GP del Giappone, ponendo quasi del tutto fine alle sue ambizioni iridate, quando solo poche settimane prima già pregustava l’impresa di vincere finalmente con la sua amata Rossa, divenendo così l’eroe che avrebbe interrotto un digiuno lungo (allora) dieci anni per la sua squadra. Vittorie e sconfitte, dunque. Ma non sono questi i momenti su cui ci soffermeremo. Riconducendo al karma e al suo sostanziale equilibrio ci sono due gare, due episodi particolari nella vita e nella carriera del pilota più vincente della storia del Cavallino Rampante, che, anche se in modi diversi, hanno rappresentato una pietra miliare per il pilota, per il team e i tifosi. Entrambe nello stesso giorno e nello stesso posto, il Giappone, Paese che il numero 8 lo considera sacro da tempi immemori – rappresentando proprio sé stesso con questo numerativo. Stiamo parlando ovviamente di Michael Schumacher e delle edizioni 2000 e 2006 del GP di Suzuka.
Il primo episodio è sicuramente il più famoso. Quella che si presenta a Schumacher quel nuvoloso pomeriggio giapponese d’inizio millennio è la più grossa possibilità di Titolo Mondiale che la Ferrari ha avuto da oltre vent’anni. Con otto punti di vantaggio a due gare dalla fine sul finlandese Mika Hakkinen, e con un vantaggio di piazzamenti in caso di arrivo a pari punti, il tedesco sa che il quinto anno può e deve essere quello buono per completare la sua missione di riportare l’iride a Maranello, divenendo l’ottavo uomo della storia a vincere un titolo vestito di rosso. Hakkinen però non è di certo uno che si fa mettere i piedi in testa, e sia in qualifica (realizzando un tempo solo nove millesimi peggiore di quello di Schumacher), sia in gara (bruciando Schumacher al via e restandogli incollato fino alla fine) prova fino all’ultimo ad impedire che tornino “I colori dell’arcobaleno sulle insegne del Cavallino Rampante”. Vanamente però. Perché quello era finalmente il giorno della Ferrari, dopo quattro lustri di cocenti delusioni. Con questa vittoria Michael Schumacher ha finalmente concluso la traversata nel deserto iniziata nel 1996. L’euforia dilaga. In macchina, il Kaiser urla come un ossesso, dando pugni sul volante fino a romperlo, e dicendo via radio “Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta”. Ai box, gli uomini in rosso si abbracciano e esultano. A Maranello, caroselli e campane festanti rompono la quiete della mattinata italiana. Sotto al podio Michael abbraccia e ringrazia ogni singolo membro del team, che ricambiano urlandogli complimenti, mentre sul rostro l’euforia lo porterà a dirigere come un direttore d’orchestra quelli stessi uomini nell’esecuzione dell’Inno di Mameli. L’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo riprenderà aspramente per questo gesto, ma per i tifosi e per i membri del team è solamente un gesto di pura gioia. In questo caso, il numero 8 è stato fortunato: ottavo campione per la Ferrari con l’ottava vittoria stagionale e otto punti di vantaggio prima della gara, tutto l’otto ottobre.
Il secondo episodio invece sarà probabilmente venuto in mente a meno persone, ma chi, come il sottoscritto, era sveglio quella mattina ricorda perfettamente quanto successo in quella gara. La pole la ottiene Felipe Massa, ma l’attenzione è tutta sul secondo e il quinto classificato, Schumacher e il suo rivale Fernando Alonso su Renault, appaiati in classifica a due round dal termine, due round che per Michael sarebbero stati gli ultimi con il Cavallino. Durante la gara, sia il tedesco che lo spagnolo passarono Massa, e si trovarono a lottare da soli. Ancora Suzuka, ancora 8 ottobre, ancora penultimo appuntamento stagionale, ancora Schumacher primo. L’ottavo titolo sembra essere più vicino, in Renault sanno che anche a San Paolo la Ferrari sarà la favorita, e un Mondiale che fino a giugno era già dato per certo a Enstone sta improvvisamente prendendo la strada di Maranello. Ci vorrebbe un miracolo per Alonso. E il miracolo, incredibilmente, arriva al 36esimo passaggio sotto forma di fumata dal retrotreno della Rossa. La Ferrari numero 5 ha rotto il motore! Non accadeva dal 2001, nessuno sembra crederci. E se sei anni prima quello ad esultare era il tedesco, adesso è lo spagnolo che, alla celestiale visione del V8 italiano arrosto, inizia ad agitare il pugno. Il Mondiale è vinto. A Interlagos ci vorrebbe un miracolo per Schumacher per vincere il titolo, un miracolo che non arriverà. Ma se molti avrebbero imprecato via radio, cosa che Schumacher avrebbe potuto fare anche perché libero da qualunque ripercussione, avendo già annunciato il (primo) ritiro, il tedesco si dirige ai box e, come aveva fatto sotto al podio nel 2000, abbraccia e uno ad uno i membri del team, ringraziandoli per quel meraviglioso viaggio iniziato nel 1996, cominciato tra dubbi e perplessità sia da un lato che dall’altro, ma man mano diventato, grazie alle vittorie, un amore incondizionato, sia da parte di Schumacher verso la Ferrari che viceversa. Questa volta, il numero che tanto era stato tanto amico nel 2000 si è rivelato traditore: in un colpo solo, Michael ha perso sia l’ottava vittoria stagionale che l’ottava corona iridata, pugnalato proprio dagli otto cilindri del suo motore Ferrari in quella soleggiata mattinata autunnale, che molti di noi difficilmente dimenticheranno mai.
E con questo cosa voglio dire? Che il destino è strano. Una stessa data, uno stesso numero che per motivi diversi si è riproposto spesso, dando gioie e delusioni ai tifosi Ferraristi, che adesso, scorrendo sui social, ogni volta che arriva l’otto di ottobre passano da un sorriso nostalgico ad un’arrabbiatura ancora viva. Equilibrio cosmico insomma, tanto ha dato e tanto ha tolto. Ma se c’è una cosa che questi due momenti hanno in comune, è il grande attaccamento alla squadra che Michael ha sempre dimostrato: nel primo episodio, la prima cosa detta in radio dopo aver tagliato il traguardo è “We did it”. “We”, non “I”. Non è lui ad aver vinto, è la squadra. E nel secondo invece, abbiamo gli abbracci e le strette di mano a un gruppo di uomini mortificati di avergli incolpevolmente tarpato le ali proprio nel momento più bello di un campionato che se avesse vinto sarebbe stato leggendario. Un raro momento umano di un pilota che è sempre parso come una macchina determinata solo a vincere. L’otto ottobre, in entrambi i casi, ha svelato a tutti noi il vero volto di Michael Schumacher. E forse è questo quello che dovremmo ricordare di questo giorno.