Ci sono racconti, storie, che sembrano romanzi nati con lo scopo di istruire le future generazioni ma che spesso, invece, prendono vita dalla realtà. Una realtà cruda, amara, che nella sua tragicità contiene un monito, un insegnamento affinché quel che è già accaduto non possa ripetersi. Ecco, oggi con il #tbt vi riportiamo indietro fino al 1955, l’anno in cui a Le Mans, durante la corsa automobilistica più importante al mondo, i destini di tre piloti, tre team e circa duecento persone – tra morti e feriti – si incrociarono durante quello che, ancora ad oggi, rimane il più grande disastro della storia dell’automobilismo.
Le Mans è la corsa più importante e prestigiosa nel mondo dell’automobilismo. La Formula Uno è appena nata, vive ancora in uno stato primordiale e spesso i piloti si alternano tra le corse più prestigiose ed il suddetto campionato. Per alcuni drivers, Le Mans possedeva la stessa valenza di un titolo mondiale piloti – o forse anche di più -, e tra i tanti a pensarla così c’era anche Pierre Lavegh. Il pilota, ormai cinquantenne, vedeva il circuito francese come un’ossessione: vincere la corona sul circuito transalpino era un sogno costretto nel cassetto per troppo tempo. A bordo della sua Talbot, tra il 1950 ed il 1954 si era messo in mostra con dei risultati non troppo esaltanti, fatta eccezione per l’edizione del 1952. Qui, in una gara a dir poco sfortunata, il pilota francese ruppe il motore – a causa di un cambio marcia errato – durante l’ultima ora di gara, mentre conduceva la corsa con 4 giri di vantaggio sul secondo dopo ben ventidue ore consecutive dietro al volante. Un duro colpo al morale, per uno che si era innamorato della corsa sul circuito de La Sarthe appena ventenne, in quell’età dove i sogni da bambino non accettano ancora di lasciare spazio alle responsabilità da adulto. Lo stile, la tenacia e l’impegno dimostrato durante il GP non passarono inosservati, anzi: vennero addirittura aspramente criticati da molti dei presenti. Tuttavia, quello stesso stile, quella stessa tenacia e quello stesso impegno stupirono in positivo una persona: Alfred Neubauer, Direttore Sportivo della Mercedes Benz, il quale promise a Lavegh un sedile a bordo di una delle Frecce d’Argento che avrebbero partecipato a Le Mans.
Siamo in un’altra epoca, dove la parola conta come un impegno scritto e così, dopo aver saltato le edizioni del 1953 e del 1954, la Mercedes si ripresenta alla corsa più importante al mondo nel 1955. Il team tedesco non avendo disputato le due precedenti edizioni aveva solo un obiettivo: vincere. E per farlo il marchio di Stoccarda schiera al via il meglio – o quasi – del panorama mondiale automobilistico dell’epoca. Alla guida della prima 300 SLR c’erano Juan Manuel Fangio e Stirling Moss, a bordo della seconda trovavano posto Kerry King ed Andrè Simon ed, infine, al volante della terza auto, Pierre Lavegh e John Fitch. Ogni promessa è debito dunque, ed ora stava al pilota transalpino farsi valere e dimostrare di meritare la fiducia datagli. Il compito però non era affatto semplice: a contendere lo scettro alla casa di Stoccarda, infatti, c’era la Jaguar con la sua D-Type. Anche la Casa inglese si era presentata la via con tre vetture, guidate rispettivamente da Mike Hawthorn e Ivor Bueb, da Dolton e Hamilton – tra l’altro vincitori della precedente edizione – ed infine da Bauman e Dewis. Queste vetture erano state affidate alla direzione di Frank Raymond Wilton England, un altro personaggio che aveva come unico scopo vincere Le Mans. Ai nastri di partenza di quell’edizione, ovviamente, ci sono anche altre scuderie: c’è la Ferrari con le 121LM con i vari Castellotti, Marzotto, Hill, Maglioni, Trintignant e Shell dietro al volante, una Austin Healey 100S e l‘Aston Martin DB3S. Questi marchi, assieme a tutti gli altri che componevano la griglia di partenza in quell’anno, avevano tutti una cosa in comune: svolgevano un ruolo secondario in questa edizione. La vera gara, quella per la vittoria, era solamente tra Jaguar, Mercedes e le loro rispettive vetture, che si preparavano allo scontro come due boxeur che si studiano dagli angoli opposti del ring.
Gli occhi di tutti, sin dalle prime prove, sono fissi sulle Mercedes, attese spasmodicamente dopo due anni di assenza. Le 300 SLR sono veloci, tanto veloci, e segnano sin da subito dei tempi eccezionali. Tutte, tranne una: quella guidata da Lavegh. Come per un beffardo disegno del destino, infatti, di fronte all’occasione della proprio vita il pilota francese non riesce a rendere come vorrebbe, come potrebbe, come dovrebbe, e anzi sembra intimorito dalla potenza che la vettura sprigiona. In effetti, le Mercedes hanno così tanta potenza che i freni a tamburo avevano difficoltà ad arrestare la vettura, ed i tecnici della squadra dalla Stella a tre punte, per tentare di ovviare all’handicap, dovettero installare un’ala mobile posizionata al posteriore che poteva essere azionata manualmente dal pilota. La situazione tuttavia, nonostante la soluzione tecnica e l’accumularsi dei km, non migliora per Lavegh, ed al box quell’entusiasmo iniziale, quella sensazione di aver riposto la fiducia nella persona giusta, inizia pian piano a svanire. Si spera addirittura che il pilota si ritiri di sua sponte, o che un guasto lo blocchi. Dai box infatti non sarebbe mai potuta arrivare una segnalazione che lo esortava al ritiro. Levegh è un pilota ostinato, orgoglioso e con l’occasione della vita capitatagli tra le mani ormai a cinquant’anni non avrebbe mai e poi mai accettato una decisione simile. Quindi, nonostante il timore che serpeggiava a bordo pista tra gli uomini del suo team circa le capacità di governare un auto molto al di sopra delle capacità di guida, si decise di proseguire fino ad arrivare a sabato 11 giugno, data della gara.
C’è da fare una piccola premessa per capire ciò che accadde in gara. Al tempo, i box non avevano una corsia dedicata come accade oggigiorno: le auto nel rettilineo del traguardo si fermavano a lato senza alcuna protezione, via di fuga o qualsiasi altra forma di protezione. Una volta chiarito ciò, torniamo a quel 11 giugno. La partenza va in scena, in classico stile Le Mans: i piloti, scattati a piedi dal prato verso le proprie vetture, salgono a bordo ed accendono i motori, pronti a darsi battaglia per le successive 24 ore. Le Mercedes e le Jaguar iniziano a darsi battaglia sin dalle prime battute. Come già accaduto in prova, sono tutte veloci, velocissime anzi, tranne una: quella di Lavegh. Il pilota francese è molto più lento dei compagni, al punto da essere in fretta raggiunto e doppiato da Fangio, che capendo al volo il segno fattogli dal pilota transalpino piuttosto che superarlo sul rettilineo principale – dove tutti lo avrebbero potuto vedere -, decide di superarlo poco dopo. Questo ci dà la dimensione e l’orgoglio di Levegh, che giro dopo giro non cede alle sirene di un facile ritiro e continua a fare la sua gara, in un mix tra paura e ostinazione. E quanto emerso in questi primi giri e nei giorni passati, con il senno di poi, non sembra essere stato altro che un preludio a quanto accadde nel corso del giro numero 34.
Siamo nella terza ora di gara quando va in scena l’impensabile. Passata la chicane Ford, la Mercedes 300 SLR di Lavegh continua a seguire con ostinazione la D-Type del leader della corsa, Mike Hawthorn. La Jaguar al comando, mentre percorre il rettilineo che conduce al traguardo effettua un doppiaggio ai danni della Austin-Healey guidata da Lance Macklin e, subito dopo, frena bruscamente spostandosi sulla destra per rientrare ai box. La D-Type aveva una peculiarità unica in quell’edizione di Le Mans: montava i freni a disco, che le permettevano frenate ai limiti del pensabile per i tempi. Il pilota della Healey, colto alla sprovvista dalla manovra del collega, per evitare l’impatto prova a frenare mantenendosi sulla destra, ma le sue gomme finiscono sullo sporco e la vettura, ormai quasi totalmente fuori controllo, si intraversa improvvisamente verso sinistra. Macklin, con bravura e tenacia, riesce a recuperare il controllo della sua auto: ma a quel punto è ormai troppo tardi. Lavegh, che arrivava di gran carriera ed era perfettamente in traiettoria, non può far nulla per evitarlo: la sua 300 SLR tampona con violenza inaudita la Healey, che a sua volta funge da trampolino per la Freccia d’Argento facendola schiantare sulla barriera che proteggeva la tribuna. A causa dell’impatto, la Mercedes prende fuoco ed alcuni pezzi della vettura – tra cui il cofano e l’asse anteriore – vanno a finire sulla tribuna, in mezzo agli spettatori, come se fossero schegge di meteoriti infuocate. Un disastro immane: sembrava di essere dinanzi ad un campo di guerra piuttosto che ad una gara automobilistica. In pochi però si rendono subito conto dell’accaduto, solo chi era in tribuna ed i meccanici Mercedes addetti al recupero dei pezzi realizzano immediatamente il disastro che si era appena consumato. La corsa prosegue, ma la Mercedes, profondamente scossa da un susseguirsi compulsivo di telefonate tra Stoccarda e il circuito Transalpino, dopo 6 ore dall’accaduto decide di ritirare le sue vetture. La vittoria, come solo il fato può decidere, va a Hawthorn, pesantemente implicato nell’incidente, che sul podio festeggia come se nulla fosse nonostante la scomparsa di 85 persone e la presenza di 120 feriti.
La direzione gara, a seguito della scelta di non fermare la gara, fu pesantemente accusata da stampa e opinione pubblica. Gli organizzatori tentarono di giustificarsi sostenendo che far defluire circa duecentomila persone nel panico avrebbe compromesso l’arrivo repentino dei soccorsi, intasando strade e ostacolando le ambulanze. Le conseguenze di questo disastro, oltre al tragico bilancio, furono enormi: molti GP vennero cancellati, la Svizzera vietò per legge le gare automobilistiche sul suo territorio, negli USA la American Automobile Association decise di chiudere qualunque attività sportiva ed infine la Mercedes, al termine del campionato di F1 – peraltro vinto – decise di ritirarsi dalle corse in segno di rispetto per le vittime. Per non farvi più ritorno addirittura fino al 1987. Un epilogo tragico, per tante troppe persone, un mondo pieno di aspettative e sogni infranti, che da quel giorno mutò completamente.