Fine anni ’90. Immaginate un bambino di circa sette/otto anni che entra in un concessionario BMW per scortare suo padre nell’acquisto di una possibile nuova vettura. I bambini si sa, sono vispi, difficilmente stanno fermi. Ed allora ecco che il nostro pupo inizia a girovagare tra le auto presenti in concessionaria. Si aprono sportelli, si guardano i cerchi, si scruta ogni possibile particolare di tutta la nuova gamma presente a listino. Poi però, all’improvviso, l’attenzione cade su un venditore che si sta recando su un’auto già targata. L’auto è inconsueta, inusuale, mai vista prima su strada ma ammirata solamente sui giornali. Ad un tratto, succede qualcosa di magico: le portiere non si aprono normalmente come in ogni altra vettura ma vanno giù, all’interno della carrozzeria. La magia è riuscita. “Sogno o son desto” avrebbe detto il bambino – beh forse no, molto più probabilmente si sarebbe limitato a sussurrare “E’ una magia” -, ma forse era une delle prime volte che la fantasia di quel bambino trovava in qualche modo un riscontro con la realtà. E quella realtà rispondeva al nome di BMW Z1.
Effettivamente sì, la BMW Z1 non era cosa affatto facile da vedere tutti i giorni. E’ un’auto costruita tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 in poco più di 8’000 unità. Era qualcosa di avveniristico, come conferma la “Z” del suo nome che sta per il termine tedeesco “Zukunft”, ovvero futuro. Il progetto nacque a metà anni ’80 a Monaco di Baviera, città dove, a pochi minuti di auto dalla sede della Casa dell’Elica, all’epoca sorse una nuova società con il fine di promuovere lo sviluppo e la ricerca tecnologica senza troppi vincoli di mandato: la BMW Technik GmbH, nota ai più come ZT. Una sorta di isole felice per le idee e le ricerche del team di sviluppo composto da circa 60 elementi, che aveva il compito di creare qualcosa di nuovo sotto più profili, partendo dalla ricerca di nuovi compositi e materiali per finire al contenimento dei tempi di sviluppo di una vettura. Il risultato che si ottenne in quella sede aveva un nome ed un cognome: Z1.
Come ci insegnano molti casi analoghi, il progetto fu un colpo al cerchio ed uno alla botte, volgarmente parlando, ove per “cerchio” s’intende l’innovazione tecnologica e per “botte” il richiamo al passato. Il richiamo al passato, quando si lancia un modello che si pone come “di rottura” rispetto alla storia di una Maison automobilistica blasonata, è forse una delle parti più importanti affinché la vettura susciti interesse. Ed infatti in BMW erano più di 30 anni – dalla 507, quella che per me è forse una delle auto piùbelle del marchio tedesco – che non si percorreva la strada di una spider sportiva caratterizzata da prestazioni elevate che si univano all’eleganza del modello. Invece, con il “cerchio”, troviamo la tecnologia necessaria per sviluppare una sportiva a 2 posti dal peso contenuto, materiali ultramoderni, motore centrale in posizione anteriore e la trazione posteriore: il perfetto mix per privilegiare il piacere di guida. Questa formula riuscì perfettamente agli uomini BMW, tanto che al momento del lancio, giunto dopo 3 anni di sviluppo a ritmi serrati al Salone di Francoforte del 1987, gli occhi erano quasi tutti per lei. Il messaggio di collegamento al passato e tensione verso il futuro che era passato aveva fatto centro: poco dopo il suo lancio, alla BMW arrivarono circa 4.000 ordini per il futuro made in Baviera.
Certo, 4.000 persone che scelgono la Z1 non sono poche, non può essere passato solamente un messaggio commerciale. Ed infatti, dietro a quest’auto, c’era molto di più. Sulla Z1 era stato infatti effettuato uno studio accurato a livello di aerodinamica, tanto da ottenere un CX di 0,36 a tetto chiuso e di 0,43 a vettura scoperta: un risultato ottimo. La carrozzeria era poi completamente realizzata in compositi plastici dalla differente resistenza, con elementi più flessibili per i paraurti, più duri per cofano e vano posteriore ed infine più rigidi per portiere e deflettori, in modo da incrementare la sicurezza laterale. Queste soluzioni comportarono un problema a livello di verniciatura, che dovette essere a tre strati: il primo serviva a dare il colore vero e proprio, mentre gli altri venivano variati a seconda del livello di rigidità delle plastiche. Ma la parte più interessante della Z1 era la sua struttura. La Z1 adottava infatti una monoscocca galvanizzata rivestita di zinco dalla incredibile rigidità torsionale incredibile, a cui veniva aggiunto il pianale in fibra composita pesante appena 15 Kg che era in grado di resistere agli urti e alla corrosione. Per rendere ancora più sicura la vettura vennero poi aggiunti dei longheroni laterali e dei tubi trasversali – che servivano per proteggere ulteriormente gli occupanti in caso di incidente – ed i roll-bar integrati in caso di ribaltamento. La peculiarità incredibile di questa vettura furono però le portiere elettriche a scorrimento verticale, che scomparivano nei longheroni laterali e permettevano agli occupanti di viaggiare con le portiere aperte: una cosa mai vista prima. L’auto vantava poi una distribuzione dei pesi ottimale – 49% all’anteriore e 51% al posteriore – e montava lo stesso motore 6 cilindri della 325i, abbinato ad un cambio a 5 rapporti e capace di erogare 170 CV di potenza massima, per uno 0-100 km/h coperto in appena 7″9 ed una velocità massima di 225 km/h. Per quanto riguarda invece le sospensioni, mentre all’anteriore venne ripreso lo stesso schema presente sulla Serie 3, al posteriore venne sviluppato una schema inedito denominato poi “assale Z”, con delle sospensioni multi-link con due bracci di controllo trasversali e uno longitudinale. La stampa dell’epoca, grazie a tali accorgimenti che gli conferirono un’incredibile tenuta di strada, la definì un go-kart. Certo, un go-kart piuttosto costoso, visto il prezzo di listino di circa 80.000 marchi.
Nel 1991, con circa 8.000 unità prodotte, terminò la sua vita ed a me, francamente, un’auto del genere in listino manca. Spesso si hanno tante auto tra loro simili per esigenze del mercato, perché si dice che “E’ quello che vende”. Sì, in termini di numeri e di fatturato non posso che dare ragione, ma c’è qualcosa che manca, qualcosa di trascendentale, qualcosa che motiva gli appassionati a riscoprire il piacere di guida, creando un legame con la propria vettura. Quello che alimenta la passione e pone l’auto come un piacere e non soltanto come mero strumento delle esigenze quotidiane. Quel qualcosa che la Z1, secondo me, invece aveva.