A tradirlo è il team radio, ancor prima dell’atteggiamento del corpo. Niente cover di impolverati successi canori italiani, niente strane onomatopee, niente pirotecniche urla liberatorie. Solo una serie di “Grazie”, rivolti tanto agli uomini Ferrari presenti a Singapore quanto ai ragazzi del Reparto Corse a Maranello. Una sequela di ringraziamenti moderati, compiti, quasi timidi.
Poi Sebastian scende dall’auto, quella SF90 che in più di un’occasione aveva avuto modo di vulnerarne mortalmente la fiducia nel corso di questo 2019. Dito alzato al cielo, ci mancherebbe altro. Volante Ferrari brandito nell’altra mano a sottolineare un’appartenenza viscerale ancor prima che contrattuale, ci mancherebbe altro di nuovo. Ma niente rabbia. Niente salti. Niente gesti bruschi, vibranti, tesi, per festeggiare un successo che, in casa Vettel, mancava da 392 giorni – praticamente un’eternità. Non ci sono movimenti plateali neppure quando si avvicina alle barriere. Sebastian riceve pacche, dispensa abbracci e ringraziamenti (ancora), ma non si azzarda a lasciarsi andare. La sua, all’indomani del primo successo di un travagliato 2019 che avrebbe dovuto farlo brillare di felicità, è una gioia composta. Una gioia sorprendentemente, quasi inspiegabilmente, composta.
Ma perché?
Perché Sebastian Vettel non è mai stato uno stupido. E la realtà la vede nitidamente davanti ai suoi occhi, prima ancora che le volute di fumo incensanti dei media possano avvolgerla in una nebbia infida. Sebastian Vettel sa che oggi, pur dopo un successo come quello ottenuto a Singapore, non è ancora il momento di festeggiare come vorrebbe.
Il tedesco della Ferrari, infatti, continua a sbagliare. In maniera meno marchiana rispetto a quanto accaduto a Monza, ma la patina traslucida di perfezione di cui si era ammantato stagioni or sono continua ad incrinarsi. A Singapore, Vettel ha perso una potenziale pole position per via di due sbavature commesse nel momento decisivo, quel secondo tentativo nella Q3 in cui la pista era in grado di offrire il massimo grip e dunque la massima prestazione. Ha sbagliato, ancora una volta, e si è messo nuovamente nelle condizioni di dover inseguire Hamilton prima e Leclerc poi. Nelle condizioni insomma che lui, storicamente, non predilige. Il #5 della Ferrari sa che tra i cordoli di Marina Bay la vittoria, senza una strategia pensata per difendersi da Verstappen – se Vettel non fosse rientrato nello stesso giro dell’olandese staremmo infatti a parlare di un’altra gara – e rivelatasi poi improvvisamente idonea per attaccare tanto il #44 quanto il #16, non sarebbe mai arrivata. Oggi il biondino di Heppenheim, nella migliore delle ipotesi, senza quell’intuizione di un muretto box preoccupato più di portare a casa una doppietta che ha il sapore dell’assoluta imprevedibilità che non di favorire questo o quel pilota, avrebbe chiuso 3°. Su un dedalo di stradine che invece, cronometro alla mano, ha dimostrato come il suo ritmo fosse ampiamente sufficiente per tenersi dietro tutti.
Sebastian questo lo sa. Ed il fatto che per ottenere la vittoria abbia dovuto affidarsi più alla strategia che non al suo talento (sempre presente perché attenzione, un conto è avere il potenziale per vincere ed un altro conto è vincere davvero), forse, non gli va del tutto giù. Vettel è consapevole del fatto che lui, questo Gran Premio, sarebbe stato in grado di vincerlo confidando solamente sulle sue capacità di guida, le uniche che vuole sfruttare per dimostrare al mondo di poter stare lì, assieme ad Hamilton, Verstappen e Leclerc, in un Olimpo del Circus che sembrerebbe averlo scaraventato brutalmente nel mondo dei comuni mortali. Avrebbe voluto, potuto, dovuto trionfare essendo il migliore al volante, non – o meglio, non solo – essendo il pilota con la strategia più efficace.
Sebastian, dunque, non festeggia come vorrebbe, come vorremmo, come ci si aspetterebbe visti i precedenti. Non lo fa perché nel weekend di Singapore ha vinto contro Leclerc, contro Verstappen e contro Hamilton ma non del tutto contro se stesso, quel se stesso che sotto pressione continua a mostrare più crepe del previsto. Per avere la meglio in questa lotta, a Sebastian occorrerà ancora un po’ di tempo, tempo che la vittoria di oggi ha beneficamente ridotto portando in dono ottimismo, fiducia e speranza in un ragazzo di 32 anni che ancora si commuove – come se vivesse un sogno – quando sale sul gradino più alto del podio con indosso la tuta rossa.
Poi, e solo poi, Sebastian potrà tornare a festeggiare davvero.