Lo scrivono tutti, lo dicono tutti. In modo magari più velato, forse più forbito, tentando di indorare una pillola che è ormai indigesta da tempo. Il succo del discorso però, in qualunque modo lo si voglia spremere, non cambia: continuare a spettacolarizzare a oltranza la Formula 1 ci ha rotto i maroni.
Lo dico in modo diretto, senza fronzoli che verrebbero irrimediabilmente scompigliati dal turbinio vorticoso delle parti nobilissime di ciascuno di noi, al tramonto di una settimana che ha avuto del surreale per il mondo della Formula 1. Apertisi con le polemiche innescate dalle deliranti dichiarazioni di Stefano Domenicali sulla presunta inutilità delle Prove Libere – del suo dietrofront successivo importa sinceramente poco, le carte sono ormai state scoperte -, proseguiti con la proposta di inserire una seconda qualifica a un format di weekend (quello Sprint) che salvo rare eccezioni brasiliane ancora non riesce a convincere e terminati con quanto visto a Melbourne, gli ultimi sette giorni vissuti dal Circus hanno chiaramente lasciato intendere verso quale rotta si voglia far puntare la F1.
La direzione, la tendenza, è oltremodo preoccupante: l’aspetto sportivo, in quello che – come ricordato da Casey Stoner – è prima di tutto per l’appunto uno sport, è ostinatamente spinto sempre più in secondo piano. La sostanziale rimozione delle FP comporterebbe affidarsi sempre più a sistemi di simulazione che spesso si rivelano fallaci (qui ci si chiede ancora dove sia finito il secondo di vantaggio avuto dalla SF-23 sulla F1-75), l’inserimento di una ulteriore qualifica aumenterebbe il rischio di incidenti in un’era che promette di essere segnata dallo spauracchio del Budget Cap (la cui utilità concreta, per inciso, metteremo alla prova quest’anno con le “sanzioni” comminate a Red Bull), l’applicazione corretta di un regolamento assurdo vista a Melbourne ha letteralmente buttato nel water 56 giri di gara facendo decidere metà della classifica di un Gran Premio da una partenza poi annullata e quindi formalmente mai esistita. Per molto meno, anni addietro, ci si guadagnava agilmente un biglietto di sola andata per il manicomio più vicino.
L’esposizione di due delle tre bandiere rosse viste a Melbourne è contestabile. Lo dicono gli addetti ai lavori, lo dicono soprattutto i piloti, che non riescono a trovare un filo logico nelle azioni di chi dovrebbe indirizzarli e giudicarli. Interruzioni della corsa che, seppure timidamente giustificate dalla sicurezza, motivate da una prudenza per certi versi forse addirittura eccessiva, non riescono a evitare che una volta di più ci si chieda perché situazioni simili debbano essere valutate in modi diametralmente opposti. Per quale motivo, in presenza di una vettura ferma in pista, in alcuni casi si decida di optare per una Safety Car e in altri si opti invece per l’esposizione di una bandiera rossa. In base a cosa quanto successo nelle fasi finali del GP d’Italia 2022 sia stato considerato diverso da quello che è accaduto negli ultimi giri del GP d’Australia 2023. In assenza di rischi legati allo sforamento del tempo massimo, di condizioni meteorologiche o di orario sfavorevoli, perché due casi formalmente uguali dovrebbero ricevere trattamenti così differenti?
Le riflessioni sul tema incrociano più volte le loro traiettorie con quelle dei timori di Liberty Media, facilmente intuibili in questa fase storica. Dopo il boom di popolarità avuto dalla Formula 1 grazie alla sua stagione 2021 e il sostanziale mantenimento della nuova fan base garantito dalle buone prestazioni della Ferrari nella prima metà del 2022, il Circus dell’era a stelle e strisce si ritrova alle prese con quella che potrebbe essere la prima stagione di nuovo dominata – dall’inizio alla fine – da un binomio pilota-scuderia. Il rischio che Max Verstappen e la Red Bull possano davvero uccidere il campionato 2023 ha preso forma in Curva 1 del 2° giro del GP del Bahrain e questo, per chi è arrivato a consentire che la narrazione lineare di intere stagioni venisse sacrificata sull’altare di una serie TV, è uno scenario che non può e non deve essere accettato. Serve drama, serve carnage, serve mayhem, come scrivono ogni 3×2 i social della F1 soprattutto in gare come quella australiana, facendomi peraltro correre ora il rischio di una multa da migliaia di € per utilizzo di anglicismi.
Verstappen vince, la Red Bull fugge, e se tutto il castello di notorietà faticosamente costruito nel corso di questi ultimi anni rischia di crollare è per Liberty Media giunto il momento di provare a rinsaldare fondamenta e contrafforti. No a una Safety Car che spegnerebbe l’entusiasmo del finale di gara, sì a un restart a due giri dalla fine in grado di aggiungere tensione e pathos. No alle partenze lanciate che difficilmente mettono in difficoltà il leader della corsa, sì a quelle da fermo – in virtù di una scelta dalla discrezionalità assoluta – orchestrate nella speranza che succeda qualcosa, che qualcuno riesca a scalfire la patina di invincibilità che circonda Verstappen e la Red Bull, rei di avere privato la Formula 1 americana di un esito stagionale incerto, di un finale da kolossal. No alle FP che consentono di mettere a punto l’auto e sì alle qualifiche di una gara breve, introdotta come gara di qualificazione alla gara vera e propria ma che si appresta ora a diventare in tutto e per tutto una gara a sé stante.
E ancora: un paventato no alle limitazioni sull’utilizzo a zone del DRS per favorire maggiormente i sorpassi, un tentato no alle termocoperte nonostante la quasi totalità della griglia consideri pericolosa una decisione presa in nome di una poco credibile spasmo di sostenibilità ambientale. No, in breve, a tutto ciò che possa rendere lineare la Formula 1. Uno sport la cui credibilità è improvvisamente minata e messa in pericolo proprio da chi, di quello sport, dovrebbe sulla carta preservare spirito e dignità.