È un’istantanea sgranata l’immagine con cui Craig Breen ci viene portato via per sempre. Cappotti Hyundai neri, cappucci sollevati, pochi uomini intorno a un luogo che continuerà a essere uguale a tanti altri pur non potendo mai essere più lo stesso. Colori spenti, appassiti da una pioggia che non ha la forza per lavare via cose pesanti, dense. Macigni nell’animo di chi non crede, non concepisce ed è ciononostante costretto ad accettare una realtà oscura.
La Hyundai i20 di Craig Breen, irlandese, 33 anni compiuti lo scorso febbraio, giace lì, lievemente sollevata sul fianco destro, all’apparenza solo adagiata su una collina. Danni modesti all’esterno quanto indicibili all’interno. Una portiera aperta e poco altro: un incidente molto meno grave, si direbbe, di tanti altri a cui si è assistito in questi anni recenti di WRC. Si intravede una staccionata, si intuiscono dei pali. Uno di loro, pare, è il colpevole. Impietoso e freddo, capace di perforare l’armatura lì dove la corazza è evanescente e di arrivare dritto al cuore.
Un amore per la guida, quello di Breen, che ruba i semi dei sogni innaffiandoli di desiderio per farli sbocciare in fretta. Sua madre a cronometrarlo mentre pedala a vita persa sul suo go-kart nel cortile della casa di Waterford, suo padre a riprenderlo mentre smanaccia un volante all’inseguimento di chissà quale record sulla PlayStation. A 17 anni, la scia della cometa di McRae e Burns indirizza il suo cammino: nel 2007 l’esordio nel mondo dei rally, nel 2009 la necessità di arredare il salotto di casa con una teca in cui raccogliere i primi premi conquistati. La vittoria nel FIA Junior WRC datata 2011 gli spalanca le porte dell’ERC prima e del WRC poi. Il podio qui, nel 2016, arriva dopo appena tre gare.
Il legame con Citroën si salda nel momento peggiore. Sono anni di team non ufficiali e di auto mediocri a cui neppure Sebastien Ogier riesce a trovare un rimedio, e la svolta – datata 2018 – del marchio di Poissy conduce il team Total Abu Dhabi WRT al ritiro e la carriera di Craig Breen in un vicolo cieco. Incontrarlo nel 2019 voleva dire confrontarsi con occhi velati da un’ombra ammantata di urgenza e con un’indole educata al punto da sembrare timida. Breen, l’irlandese che amava il the fino al punto da riuscire a introdurlo come abitudine d’Oltremanica tra i muri delle squadre in cui militava e che snocciolava scioglilingua in lingue non sue, aveva fretta. Di correre, di vincere, di dimostrare a se stesso e agli altri che la parentesi trascorsa sotto il vessillo ammainato di Citroën fosse un’eccezione e non la regola. Fretta, dunque, ma allo stesso tempo delicatezza e garbo nel non far gravare il peso della sua impazienza sulle spalle di chi lo incontrava. Un sorriso docile, mentre correva a perdifiato per aggrapparsi a un treno che andasse ovunque. Ovunque, purché fosse avanti. Il feniano fa questo, frutto com’è di una terra che sa di rivoluzione e coraggio.
La fermata è quella di Alzenau, il team è quello di Andrea Adamo, ma le priorità della squadra sono altrove: nell’infinito arco di tre stagioni sono solamente 9 gli appuntamenti del WRC in cui Breen ha modo di tornare in gara. Il talento, tuttavia, è un qualcosa che neppure le sabbie del tempo riescono a erodere facilmente. Tre podi in altrettante apparizioni gli valgono la chiamata alle armi da parte di M-Sport e, con all’orizzonte la chimera di un regolamento in grado di stabilire un nuovo equilibrio, l’irlandese risponde presente. Positive le premesse, negativi i risultati: una apatica cappa di piazzamenti incolori offusca Breen, facendolo piombare, fino al termine del 2022, nel pantano di un’ombra viscosa e pericolosa. Il viaggio di ritorno ad Alzenau, affrontato nel corso di uno degli inverni più bui della sua carriera, è fatto con bagagli privi di trofei e traboccanti di dubbi. Quello del pilota part-time è un ruolo scomodo, e l’irlandese questo lo sa bene. Occorre dimostrare, di nuovo e una volta di più, che le classifiche e i numeri hanno mentito.
Ciò che rende unico il fuoco della passione, qualunque essa sia, è la sua capacità di potersi accendere ovunque. Anche – e forse addirittura soprattutto – nei luoghi in cui persino una scintilla reale farebbe fatica a vedere la luce. Tra i ghiacci e le nevi della Svezia il talento di Breen brilla come un faro nella notte, acceso da una speranza nascosta tra le lamiere e i bulloni di una i20 Rally1 che gli trasmette costanza, ritmo, fiducia. L’irlandese lotta per la vittoria, abdica nel finale solamente al velocissimo Tanak, e vede un’ombra fuggire via dal suo sguardo.
Occhi lucidi e sorriso incredulo nelle interviste, a cuore aperto parla del luogo buio e orribile in cui era finito in giorni, settimane e mesi precedenti. Ci porta assieme a lui sul ciglio del suo baratro: basta uno sguardo fugace per capire quanto sia profondo, un pensiero rapido per intuire quanto sia stato difficile emergerne.
Era in Croazia quando la luce si è spenta, a preparare il suo secondo rally dell’anno dopo essere stato assente in quello del Messico. Lontano dalle telecamere, un incidente del quale sarà tragicamente chiaro solamente l’esito gli ha tolto la vita. Le lacrime del Rally di Svezia si fanno all’improvviso più lontane, l’amarezza inquina un’immagine fresca che un tragico destino ha costretto a diventare già ricordo. Sembrava potesse essere la fine di in incubo: si è rivelato invece l’inizio di un sogno che non sarà mai più realizzato.