Le vibrazioni del cordolo esterno alla Rivazza 2 riverberano dentro l’abitacolo della Porsche che sto guidando. Con un leggero colpo di sterzo verso sinistra riporto tutte e quattro le gomme sull’asfalto umido, lievemente ondulato, carico di storia e significati dell’Autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola. Affondo il piede sul pedale dell’acceleratore, mentre i 450 CV del 6 cilindri boxer che ho alle spalle ululano al mondo la loro rabbia.
La lancetta analogica del contagiri centrale si avvicina a velocità vertiginosa verso la zona rossa, quindi mi affido alla cicatriziale precisione del PDK per lambirla fino all’ultimo istante salvo poi passare alla marcia successiva. Il 3.0 biturbo della Porsche 911 GTS che ho tra le mani mi spinge con forza e apparentemente inesauribile vigore mentre affronto la lieve piega destrorsa che compone il rettifilo di partenza e arrivo del circuito che sorge sulle sponde del Santerno. Mi sposto progressivamente verso il muretto, fino a mettere le due ruote di destra sulla vernice verde, per avere la traiettoria più rettilinea possibile mentre mi dirigo verso la Variante del Tamburello. Il contakilometri digitale tenta di fare appello al mio istinto di conservazione facendomi sapere che sono già oltre i 220 km/h, ma questo dritto non vuole proprio saperne di finire. 230 km/h sotto il cartellone sul quale campeggia la scritta Imola, 240 km/h quando spunta di fronte a me la piega della prima vera curva che si incontra sul “Piccolo Nurburgring”.
Tocco i 247 km/h prima di affidarmi ai freni dell’icona di Zuffenhausen. E’ mattina, chiazze scure sull’asfalto mi fanno capire che non ci si può, non ci si deve fidare di questa pista ovunque e allo stesso modo. La macchina si muove, oscilla mentre mi aggrappo a dischi e pinze e scalo marce una dopo l’altra: la prima frenata, con una vettura stradale, si affronta a ruote non totalmente dritte. Il muretto alla mia destra, mentre la 911 GTS continua a scuotermi, è tremendamente vicino.
Arriva l’ingresso del Tamburello, un sinistra – destra molto veloce: le gomme accennano a stridere, e persino in modalità Sport + il trasferimento di carico si avverte in maniera netta e decisa. Esco dalla piega verso destra, affondo nuovamente il piede sul pedale dell’acceleratore e mi lancio a capofitto verso sinistra, con il motore che grida, il cuore che raggiunge imprecisate e irripetibili frequenze e gli occhi che iniziano a disegnare la linea da affrontare alla Villeneuve. Curva infida, quest’ultima: sembra replicare l’andamento del Tamburello, ma la somiglianza è meno netta di quanto sembri. Scalo due marce, forse una di troppo, e mi inserisco sfiorando il cordolo alla mia sinistra. Freno nuovamente. Sono troppo veloce, e la piega verso destra chiude più di quanto mi aspettassi: decido saggiamente di non scalare un’ulteriore marcia, salgo sul cordolo a destra e cerco di sfruttare quello di sinistra, in uscita, per portarmi rapidamente verso la Tosa. Il tentativo non funziona del tutto: Imola nasconde bene i propri segreti.
Arriva lei, teatro di battaglie ed episodi rivelatisi ferali per la F1 del passato. Tornantino sinistrorso con una lieve pendenza verso il cordolo interno, la Tosa mi è parso un punto fondamentale del tracciato: temere questa curva si traduce in una incalcolabile perdita di decimi, affrontarla con troppa baldanza può voler dire dover correggere reazioni scomposte e improvvise di una vettura non pronta ad affrontare in un certo modo un simile cambio di pendenza e di inclinazione. Esco dalla Tosa, e vedo il circuito scomparire davanti a me. La salita vertiginosa, che la 911 GTS divora in un amen, è il preludio della Piratella, curva indescrivibile: cieca, velocissima, pronta a precipitare in un battito di ciglia verso la vertigine delle Acque Minerali. Arrivo sullo scollinamento con il contachilometri che indica velocità poco consigliabili, cavo una marcia e mentre sento la Porsche chiedere vagamente pietà mi infilo verso sinistra sfiorando il cordolo interno. La percorrenza è rapidissima, e pochissimi decimi di secondo dopo mi ritrovo già lanciato ventre a terra verso la prima piega delle Acque Minerali.
Ho il fiatone. Un po’ per l’emozione, un po’ per la tensione, un po’ per il fascino senza tempo e senza senso che questi 5 km incastonati nelle colline emiliane suscitano in ogni appassionato di motori. Alle Acque Minerali scalo una marcia, pinzo i freni e mi getto a destra in uno stridore – questa volta più accentuato – di pneumatici: tocco il cordolo in ingresso, maltratto il PDK e l’impianto frenante per perdere un altro po’ di velocità mentre allargo la mia traiettoria fino al margine sinistro della pista e nella magnifica compressione lancio nuovamente la 911 GTS verso destra, per una nuova salita che sembra nascondere alla mia vista tracciato e destino. I 450 CV gridano, strillano, coprono con il loro ruggito una valanga di pensieri: mia madre che probabilmente mi diserederebbe se sapesse a che velocità sto viaggiando, io che forse avrei dovuto mangiare meno a colazione, ma cosa le penso a fare queste cose che devo concentrarmi per uscire integro da questa montagna russa fatta di asfalto, cordoli e muretti.
La lancetta del contagiri sale di nuovo rabbiosa, la pista torna in piano e davanti a me si palesa la Variante Alta. Stando nuovamente attento ad evitare chiazze di umido, imposto la frenata affidandomi ancora una volta alla prestanza della Porsche che ho tra le mani: scalo tre marce, punto il cordolo interno e mi rendo subito conto di aver commesso un gravissimo errore. Assieme alla piega verso destra vedo infatti spuntare con colpevole ritardo un immenso “panettone” giallo con cui penso di non volere affatto fare conoscenza: correggo leggermente la mia traiettoria verso sinistra, costringendo la 911 GTS ad assecondarmi nel tentativo di mettere una pezza alla mia ottimistica valutazione. Il posteriore della vettura si scompone leggermente, ma un lieve colpo di sterzo – e l’elettronica – rimettono in asse la Porsche consentendomi di girare attorno (stavolta sì) al cordolo interno e di spalancare il gas per un’altra inspiegabile, inconcepibile, discesa verso l’ignoto.
Mentre si chiede il massimo al motore, la pista declina bruscamente verso destra e mi costringe, una volta di più, a impostare la staccata con la macchina non perfettamente dritta. La 911 GTS oscilla di nuovo, inizia ad accusare la fatica dei giri precedenti mentre la gravità di una staccata in discesa sembra volerla attrarre verso la ghiaia della via di fuga. In una lotta che dura attimi eterni è alla fine la creatura di Zuffenhausen ad averla vinta, e io posso tirare un rapidissimo sospiro di sollievo mentre balzo sul cordolo interno della Rivazza 1. L’atterraggio è dolce, educato, e mi permette di aprire di nuovo il gas poco prima di pinzare i freni per la Rivazza 2. Stacco, scalo, inserisco lambendo una volta di più il cordolo interno e schiaccio di nuovo l’acceleratore. Il 3.0 biturbo alle mie spalle ringhia rabbioso, e assieme al PDK trova pace solamente quando termino il giro di Imola, transitando sul traguardo e lasciando che la 911 GTS tutta riprenda fiato assieme a me. E’ solo allora, nel calore sovrumano dell’abitacolo di una vettura sconvolta quanto chi la guida sorridendo trasognato, che mi rendo davvero conto dei battiti cardiaci che ho avuto nel corso degli ultimi 2′.
Ed è solamente dopo avere rivisto questo giro onboard e avere valutato a mente fredda dove io abbia frenato, dove abbia accelerato e quanto vicino ai muretti io abbia girato, che mi sono reso conto di aver fatto una delle esperienze più genuinamente pericolose della mia vita. Una di quelle che rifarei però non una, non cento, non mille ma infinite volte, perché l’Autodromo Enzo e Dino Ferrari è una droga di cui non ci si stancherebbe mai.