La Classe 50 è stata forse la più stupefacente tra quelle che hanno composto il Motomondiale. È stata l’ultima ad apparire nello scacchiere della serie iridata, nel 1962, nonché la prima a sparire, sostituita nell’84 dalla Classe 80 che ebbe vita brevissima, cessata senza sostituzione alcuna alla fine del 1989. La FIM istituì un campionato iridato per questa piccola cilindrata sulla spinta delle varie federazioni nazionali, che già dalla fine degli anni ’50 vedevano tale categoria costituire il bouquet delle proprie competizioni, basandosi sulla cilindrata più diffusa a livello stradale. E prima delle limitazioni del 1968 Honda arrivò a toccare i 350 cv/l, con una 4 tempi.
Gli anni ’60 furono il periodo del massimo fulgore tecnico del campionato mondiale di velocità, con i 4t che si avvicinavano al loro apice di sviluppo ed i primi candidi -ed arroganti- 2 tempi provenienti dal Giappone. Questa spinta alla ricerca colpì soprattutto le classi più piccole, 50 e 125 (e di rimando 250), dove si frazionavano il più possibile i motori per raggiungere maggiori regimi di rotazione attraverso cilindrate unitarie il più possibile ridotte, come non ricordare la e mitiche Honda RC149 e Rc166 rispettivamente 125 a 5 cilindri e 250 a sei cilindri. Invece nelle grosse cilindrate (350, 500) le soluzioni si standardizzarono su motori a 3 o 4 cilindri indipendentemente se a 2 o 4 tempi. Nonostante la scarsa cilindrata e le bassissime potenze, soprattutto nella Classe 50 l’ingegno dei progettisti ebbe libero sfogo, ancor più che in 125 e 250: furono capaci di realizzare minutissimi pluricilindrici, il cui montaggio era delegato ad orologiai. E non è un modo di dire, è la realtà. Bicilindrici e tricilindrici a 2 e 4 tempi, con pistoni più piccoli di un alluce e spinotti dal diametro ridottissimo. La potenze superavano di slancio i 10 cavalli sin dagli albori della serie, con i 4 tempi capaci di sradicare il muro dei 20’000 giri al loro apice.
A destare grande scalpore erano soprattutto i cambi, che vantavano 4 o 5 marce con 2, 3 o addirittura 4 riduzioni a seconda delle necessità: piccole zanzarine che ronzavano costantemente a 19-20’000 giri sui rettilinei, forti delle 16 velocità che consentivano di non calare mai troppo di giri tra una cambiata e l’altra, su ruote da due pollici e ciclistiche con le fattezze di biciclette, ed i piloti spesso seduti oltre il mozzo della ruota posteriore per trovare il miglior bilanciamento. Assurdo davvero. Ed infatti la Federazione decise di fermare questa spinta prestazionale per una questione di costi. Così dal 1968 venne imposto il limite di un solo cilindro e nella stagione successiva il limite a soli sei rapporti totali. L’escalation si calmò, per quasi vent’anni le soluzioni tecniche si fossilizzarono fino a quando vi fu l’aumento di cilindrata. Nel 1984 nacque la Classe 80, in cui si mantennero però le stesse limitazioni su frazionamento e numero di marce.
A rapire la mente sono sostanzialmente due moto, la Suzuki RP-68 e la Honda RC116. Per la Suzuki dobbiamo però limitarci al condizionale: iniziarono a pensare e realizzare la RP68 nella primavera del ’67, per recuperare la supremazia messa in dubbio dalla Honda con le RC115/6 -di cui vi parleremo tra poco- ma furono costretti a trasformarla in un esercizio di tecnica visto il nuovo regolamento, che sarebbe immediatamente entrato in vigore dall’anno successivo. Un tre cilindri 2 tempi a V di 90°, in sostituzione delle bicilindriche due tempi della serie RK -usate dal 1965 al 1967- che a loro volta sostituirono i monocilindrici RM -usati nel 63 e 64- che dominarono i primi anni. Due cilindri orizzontali ed uno verticale con raffreddamento a liquido, alesaggio e corsa rispettivamente di 28 e 27 mm consentivano una cilindrata totale di 49,87 cc. L’aspirazione, a disco rotante, contava su 3 carburatori Mikuni da 20 mm posti a lato. Sviluppava 19 cavalli ad un regime compreso tra i 19’000 ed i 20’000 giri/min, trasferiti alla ruota da un cambio a 16 rapporti, ed una velocità massima di 200 km/h. I freni erano dei classici tamburi ed il peso era di 51 kg. Non vide mai la pista, al suo posto venne usata una RK67 evoluta, rinominata RK68.
La Honda RC116 invece corse, eccome se corse. Honda decise di andare controcorrente nella sua avventura nella Classe 50, mantenendosi legata all’architettura a 4 tempi, come in tutte le altre classi, e raffreddamento ad aria. Dopo aver debuttato con una monocilindrica, la RC110 del 1962, HRC passò al bicilindrico dal 1963 con la RC113. Nel ’65 portò nel Mondiale la RC115, sempre bicilindrica a 4 tempi, ma decisamente evoluta rispetto alle RC113 e 114, quasi una rivoluzione con alesaggio e corsa rivisti per favorire regimi ancora più alti, raggiungendo i 14 cv a 17’000 giri/min, ed un peso che scendeva a 50 kg senza carenatura. Per ridurre al massimo sia il peso statico che “dinamico” si optò per dei freni a pattino, come quelli delle biciclette. Questa soluzione funzionò talmente bene da convincere Honda a travasare questa soluzione anche sulla RC149 del ’66, la 5 cilindri 4t che competeva in 125. Però, a causa del peso maggiore e delle maggiori velocità, i freni si surriscaldavano dopo nemmeno due giri, al punto da sciogliersi. E così questa soluzione rimase relegata solo alle 50.
I risultati della RC115 furono eccezionali: Ralph Bryans e Luigi Taveri, unici piloti su Honda, finirono davanti a tutti nella classifica generale portando alla casa dell’ala anche la vittoria del “Costruttori”, interrompendo il dominio della Suzuki. Le RC115 vinsero 5 delle 7 gare a cui parteciparono -erano 8 gare in totale ma Honda saltò quella inaugurale a Daytona-.
Ma Honda è pur sempre Honda, e più domina più tende alla ri(e)voluzione. Tramite una profonda evoluzione della RC115, nel 1966 arriva lei, la RC116, estremo affinamento tecnologico delle 50cc a 4 tempi. Bicilindrica, sempre a 4 tempi coi cilindri in linea frontemarcia e raffreddamento ad aria, alesaggio x corsa di 35,5 x 25,14 mm. Motore con testata bialbero a 4 valvole, cui stelo misurava 3,5 millemetri, diametro di 13mm per l’aspirazione e 11,5 mm per lo scarico ed un penso inferiore ai 7 grammi per ciascuna valvola. Gli spinotti misuravano 9 mm e pesavano 6 grammi, mentre il cambio vantava 9 velocità complessive. Il motore raggiungeva la potenza incredibile di 16 cavalli a 21’500 giri e poteva spingersi sino a quasi 23’000 giri/min. Ed in questo caso si parla di cavalli alla ruota.
(segue dopo photogallery)
Una potenza specifica spaziale, di 320 cv/l e che supera di slancio i 350 cv/l se consideriamo i cavalli all’albero: più delle più potenti e sofisticate F1 aspirate -dal 2003 al 2005-, che coi V10 da 3 litri vantavano tra i 950 e 1’000 cv e di conseguenza una potenza specifica (all’albero) inferiore ai 334 cv/l.
La moto aveva un peso a secco di 58 kg con carenatura integrale e si rivelò tanto veloce quanto affidabile, ma i risultati sperati con la nuova RC116 non arrivarono compiutamente. Il Titolo Costruttori rimase alla Honda, ma andò a Hans-Georg Anscheidt su Suzuki RK il titolo piloti per un solo punto sui due alfieri HRC -sempre Bryans e Taveri-, grazie alla regola degli scarti. Anscheidt si ripeté nei due anni successivi, riportando alla Suzuki anche il Costruttori nel ’67 e ’68.
Terminata la stagione ’68, in segno di protesta contro i nuovi vincoli tecnici imposti dai regolamenti –massimo 6 velocità con motori monocilindrici per le 50 e bicilindrici per le 125- Honda e Suzuki decisero di ritirarsi, lasciando il campo di battaglia alle sole Kreidler e Derbi. Nel 1969, con la nuova formula delle monocilindriche, emerse un ventiduenne spagnolo di Zamora da sempre fedele alle monocilindriche Derbi, che si aggiudicò il primo dei suoi 12+1 titoli. Angel Nieto.