Il caso, l’occasione, la cultura, la preparazione, il talento. Quale tra questi elementi consente di raggiungere quegli obiettivi a cui, magari persino inconsciamente, si tende sin da quando si è bambini?
Dopo avere letto l’intervista a Edoardo Vercellesi, prima voce della World Superbike sui canali di Sky Italia, a questa domanda viene da rispondere nel modo più avvolgente e totalizzante possibile: nessuno di quegli elementi è fondamentale, ma ciascuno di loro è necessario. La storia e la carriera di Edoardo, classe 1997 e nel profondo sostenitore della necessità di ricercare l’interdisciplinarietà al punto da rendersi culturalmente onnivori, sono d’altronde la testimonianza di ciò. Da un inizio quasi casuale si è giunti a un impegno ponderato, da un impegno ponderato è nata l’occasione, l’occasione ha portato a sviluppare cultura e preparazione, la cultura e la preparazione a loro volta hanno reso evidente il talento. Crescendo e migliorandosi passo dopo passo, Edoardo ha reso fatto sì che la sua voce diventasse una delle più riconoscibili del panorama motoristico italiano grazie a uno stile sentito, umano e personale che si discosta da molto di ciò che si ascolta in televisione negli ultimi tempi. Partendo quindi dagli inizi della sua carriera fino ad arrivare a un monito che chi vi scrive condivide in toto, ecco cosa ci ha raccontato nel corso della nostra lunga, lunghissima chiacchierata.
Fuori Traiettoria: Da dove – e quando – nasce la tua passione per i motori?
Edoardo Vercellesi: La mia passione per i motori nasce dalla casa dietro la mia. Fu propiziatorio, quando ero piccolo, l’incontro con quello che all’epoca era il mio vicino di casa: un tester di moto, un grande appassionato, che attualmente lavora ancora per Topolino e che ogni tanto inserisce qualche contenuto, principalmente a tema due ruote. Lui fu importantissimo: mi prendeva sulle ginocchia, giocavamo insieme al videogioco della Superbike con il controller fatto a manubrio, ed è lì che è nata la grande passione per le corse. I motori avevano fatto capolino nella mia vita per conto loro già da prima, mi piaceva guardare le macchine, i camion che passavano davanti a casa sulla superstrada, mi piaceva guardare le macchine nel parcheggio e riconoscerle piano piano. Direi che fin dai due o tre anni è nata la passione, indistintamente per le due e per le quattro ruote.
FT: Io ho memoria di un retroscena con Petrucci. Mi sbaglio?
EV: Sì, c’è un retroscena con Danilo. Guarda, ho anche la prova. Questo era il primo Topolino, dove ci sono io con Marco (Simoncelli, ndr). È un bellissimo ricordo, che si lega oltretutto a quello con Danilo: esattamente dieci anni dopo avere consegnato questo disegno originale a Simon Cerny dopo la sua vittoria del titolo 2008, abbiamo realizzato un altro servizio, da Topo Reporter a Topo Reporter. Io e il figlio di questo redattore di Topolino, il mio ex vicino di casa, andavamo al Mugello per imbastire una sorta di passaggio di consegne. Io all’epoca già commentavo CEV e Rookies Cup, e Petrucci mi riconobbe mentre facevamo il servizio con lui. Mi disse che conosceva la mia voce, che mi seguiva: fu davvero bello.
FT: Da quel momento però ti sei specializzato nella telecronaca, diventando appunto il telecronista che sei. Hai sempre puntato a questa carriera oppure è stato un qualcosa che è accaduto per caso?
EV: Un onesto mélange delle due cose. Da quell’incontro con Simoncelli avvenuto nel 2008, quando avevo 11 anni, ho più o meno capito che avrei voluto lavorare nel mondo dei motori, probabilmente come giornalista. Da allora mi sono sempre detto mi sarebbe piaciuto fare il giornalista, ma non mi ero dato un obiettivo specifico. Mi piaceva seguire le telecronache, però non avevo in mente di volere assolutamente fare quello, anzi. Mi dicevo che una volta arrivato all’università mi sarei iniziato a guardare intorno, vedendo da lì in avanti cosa sarebbe successo. Avendo però iniziato a scrivere presto, già dalla seconda liceo, tra virgolette mi sono trovato presto in una situazione di possibilità. Un po’ dal nulla, nel 2016, è capitato che Guido Meda chiamasse il capo del sito per cui scrivevo allora nell’ambito evidentemente di una sorta di scouting di telecronisti. Loro hanno fatto il mio nome e da lì è nato tutto, ma non era un qualcosa di previsto e soprattutto è accaduto molto prima di quanto potessi aspettarmi. In un certo senso posso dire di essermici un po’ ritrovato, sì. Forse avevo seminato mediamente bene negli anni prima ed ero riuscito a trovarmi in una situazione di favore a quel punto, non so, ma quel che è certo è che non avevo preventivato nulla ed è successo tutto molto prima che lo potessi mettere in conto.
FT: Sei soddisfatto di come si è poi sviluppato il tutto, il fatto cioè che poi tu ti sia ritrovato molto addentro al mondo della telecronaca, oppure hai qualche rimpianto… giornalistico?
EV: Non ho assolutamente rimpianti da quel punto di vista, perché la scrittura la adoro quando è creativa. Pezzi di opinione, storytelling. Facendo questo discorso ci avviciniamo già a quello che potrebbe essere un po’ il mio prossimo sogno, che riguarda ciò che è storytelling, documentaristica, narrativa: una scrittura che mi affascina molto. La scrittura di cronaca esercita su di me un minore ascendente, mentre fare telecronaca mi permette di utilizzare la comunicazione, le parole, l’interpretazione, la voce in modo al contempo giornalistico, cronachistico e creativo. E teatrale, se così vogliamo dire. Trovo quello della telecronaca un ambito estremamente stimolante, e sono molto molto contento di fare il telecronista, mi piace proprio tanto.
FT: Io so che tu sei appassionato anche di tante altre arti, faccio l’esempio della musica. Riesci ad attingere da questi altri ambiti per portare qualcosa di diverso e caratterizzare la tua telecronaca?
EV: La risposta semiseria è sì, perché in telecronaca canto. Un po’ alla Joe Tanto in Driven: mi capita di cominciare a canticchiare qualcosa, specialmente nei momenti meno concitati e magari non in Superbike. Però si tende a farlo per alleggerire, anche perché si crea una bella dinamica con Max Temporali, la mia seconda voce, che sta al gioco. La risposta seria è che, secondo me, la telecronaca è il riflesso della personalità di chi la fa. Di conseguenza ognuno è il prodotto delle cose che vive, delle cose che fa, delle cose che apprezza, delle cose che sperimenta. Tutto quello che una persona vive all’esterno dell’ambito lavorativo, in una telecronaca se le porta dentro. Perché ne forgia il carattere. Io per esempio sono molto appassionato di musica e di fotografia: quando vedo un’inquadratura di un certo tipo magari io mi gaso, perché è un’inquadratura fotograficamente molto bella. Più ancora di questo, però, credo proprio nel fatto che tutto quello che sperimenti nella vita ti forgia e ti cambia. Essere una persona curiosa, una persona appassionata, onnivora, ti rende, secondo me, anche un telecronista migliore. Perché banalmente hai una pletora di cose da cui pescare molto più ampia, una faretra di frecce al tuo arco che è molto, molto più vasta. Come comparazioni, come anche banalmente esperienze vissute, come vocabolario. Qualsiasi cosa tu fai nella vita te la porti dentro. Ed è tutto, assolutamente tutto, molto utile.
FT: So che segui moltissime categorie di motorsport, anche e soprattutto americano. Riesci a trarre ispirazione da un mondo che comunque ha delle regole un po’ tutte sue, trai ispirazione da cronache fatte per altre categorie all’estero e soprattutto in America?
EV: Sì, sicuramente sì. Dell’America apprezzo enormemente lo stile analitico. Molti probabilmente associano l’America ai caciaroni, a quelli che fanno spettacolo, agli hollywoodiani. È vero, è assolutamente vero, ma insieme a questo hanno un’educazione all’analisi che è molto superiore alla nostra. Lo valutavo analizzando il modo in cui trasmettono gli incidenti nel motorsport: mentre le categorie mondiali di stampo europeo censurano al 100% l’incidente nel momento in cui c’è una dinamica grave, o non mostrano il replay finché il pilota non sta chiaramente bene, loro – al contrario – insistono molto sul replay da tanti punti di vista, escludendo però dal replay la soggettiva, il camera car o l’onboard del pilota ferito. Contemporaneamente, durante le fasi di soccorso, non si soffermano mai da vicino sui soccorsi al pilota ferito, piuttosto inquadrano gli altri. Questa è un’attitudine all’analisi che è molto spiccata, perché loro utilizzano le immagini, gli esperti e persino la comparazione con incidenti di gare passate per comprendere al meglio le dinamiche e fare dei passi in avanti. Questa roba noi non ce l’abbiamo, e secondo me la tendenza censoria europea è fin troppo spiccata. Oserei dire che non è pensata, che non si valuta quello che si potrebbe fare meglio, pure ammettendo che in un motorsport mondiale ci sono degli interessi economici talmente grandi che un’azienda non se la sente di associarsi a uno sport potenzialmente reputato pericoloso in cui si vedono certe cose. Tornando al mondo americano, lo trovo stimolante in tantissime cose. Se si riesce a compartimentare, a dire “Sì, ok, loro sono quelli della spettacolarizzazione, degli hot dog, delle birre durante la gara e delle caution, però possiamo prendere da loro qualcosa di buono”, ci si rende conto secondo me del fatto che loro abbiano tanto da insegnare e un modo molto stimolante di vivere le corse, un modo che noi per cultura non possiamo implementare. Da giornalista certe cose le puoi mutuare, puoi osservare gli altri e vedere cosa fanno meglio, cosa fanno peggio, un po’ in tutto il mondo, e cercare magari di introdurre qualcosina nel tuo stile. Ecco, l’attitudine all’analisi è una cosa che io sento di portare tanto dentro le mie telecronache.
FT: Continuando a orbitare attorno al discorso legato agli incidenti, una prima voce come affronta il momento in cui si trova a dover raccontare una situazione drammatica?
EV: Ognuno ha il suo modo, ma c’è una linea guida fondamentale dalla quale la prima voce non si può staccare: la speranza. Anche di fronte a una situazione evidentemente drammatica, evidentemente grave e persino disperata, la prima voce ha l’obbligo morale e soprattutto deontologico di dare speranza a chi è a casa, perché di fronte alla televisione potrebbero esserci parenti, amici, familiari di un pilota coinvolto in un incidente. Devi sempre quindi cercare di tenere alta la speranza, anche quando la situazione ti suggerisce che potrebbe essere andata diversamente. Questo non significa dire “Vedrete che sta bene” o “Non vi preoccupate”, non si tratta di questo. È non dichiarare il peggio e piuttosto aspettare, prendere tempo, concentrarsi su altro, sviare, approfondire altre cose, parlare di altro, rimanendo sempre in attesa di una notizia certa. Dei rumors purtroppo ce ne facciamo poco e sappiamo benissimo che possono essere un telefono senza fili, possono essere delle voci carpite male. Dopodiché in queste situazioni emerge un pochino la persona, lo stile personale di un telecronista, nel senso che il modo in cui riempi il vuoto di fronte ad una situazione tesa dice un po’ chi sei. Non c’è quindi un modo per forza giusto o per forza sbagliato, se non appunto quello di essere iper positivi o iper negativi. Bisogna tenere un comportamento di mezzo e nel frattempo cercare di fare dell’altro che non appesantisca la situazione, che la tenga stabile come è. Ci sono però situazioni e situazioni, anche per un telecronista. A me è capitato di commentare due incidenti mortali, quello di Dean Berta Vinales e quello di Victor Steeman, entrambi nella Supersport 300. In entrambe le situazioni io ero a Milano, con a disposizione il feed che ha anche la gente da casa e nulla di più. Io non ho visto replay, non ho visto niente, e non avendo neanche un inviato non avevo neppure una situazione che mi desse la possibilità di accedere in qualche modo alla notizia, né avevo la richiesta di accedere a una notizia. Se la compariamo con la diretta di Italia 1, della morte di Marco Simoncelli, ci si rende conto di essere in una sorta di tempesta perfetta al contrario. Pilota italiano, troupe italiana presente sul posto, con inquadrature, immagini personalizzate, gara in interno. Lì purtroppo è una corsa a capire come stanno le cose e lì è una situazione molto più difficile, perché non puoi sviare in alcun modo.
FT: Hai avuto modo di commentare gare sia in loco che da remoto: a livello emozionale, per te che sei la prima voce, cambia qualcosa per te essere in presenza o da remoto?
EV: Cambia molto, moltissimo. Ti dirò, però, che cambia ancora di più nella preparazione. Cambia tanto a livello emozionale perché intanto vedi, sei lì, sei nel posto giusto, e quindi già di per sé questo ha un effetto. Quando sei in cabina di commento ti entrano magari rumori di motori: a Imola per esempio ti passano le moto sotto sul rettilineo, hai le vibrazioni in cabina di commento ogni volta che passa una moto, e avere gli effetti delle moto che ti rientrano in cuffia anche da fuori ti costringe ad alzare un pochino il tono, no? Sono telecronache molto più partecipate perché non hai l’isolamento di uno studio, e quindi sono per forza di cose delle telecronache un pochino più attive, più partecipate. La differenza fondamentale non è però tanto o solo quella, ma sta nella preparazione. Nel momento in cui tu sei in un paddock le notizie non le devi neanche cercare, ti arrivano. Percepisci gli umori, i pensieri, vedi la gente che chiacchiera e riesci spesso a farti già un’idea della forma che avranno alcune notizie future. È un qualcosa di incomparabile, e noi purtroppo non siamo quasi mai in pista. Questo è, lo ammetto, un po’ un problema perché a livello di motivazione, dopo tanti anni chiusi in uno studio, non è che la situazione sia sempre così stimolante.
FT: Hai parlato di preparazione. A livello di vocabolario, di parlantina, quanto conta l’allenamento – se si può definire tale – e quanto invece l’improvvisazione?
EV: Allora, l’allenamento conta tanto nell’ottica dell’esperienza. La grande differenza, secondo me, la vedi tra un telecronista alle prime armi e un telecronista che ha diversi anni sulle spalle. L’ho percepito su di me, ed è più che normale: ti sciogli e con il tempo prendi confidenza nelle richieste televisive, nella tua risposta alle richieste televisive. Capisci con più chiarezza di cosa hai bisogno in telecronaca, cosa cerca il pubblico, come devi parlare al pubblico. Più che di preparazione e allenamento parlerei quindi proprio di esperienza. Detto questo, allenarsi non è che non aiuti. Io sono molto molto contento di aver fatto 5 anni di radio in università, perché la radio condivide con la telecronaca una base fondamentale, ovvero l’assenza della corporeità. Ho recentemente letto che secondo uno psicologo americano, Albert Mehrabian, la comunicazione si fonda per il 7% sul linguaggio verbale, quindi le parole, il 38% sul linguaggio paraverbale, quindi tono, ritmo e respirazione e per il 55% dal linguaggio del corpo, dalla comunicazione non verbale. Noi non l’abbiamo in telecronaca come non l’abbiamo in radio, e quindi il peso specifico delle parole e della loro interpretazione è molto, molto superiore. Di conseguenza allenarsi a scegliere le parole corrette, allenarsi a interpretarle bene, a compiere tutta una serie di scelte giuste, è importantissimo. Già capirlo a livello teorico è un assunto fondamentale per indirizzare le scelte che facciamo durante una diretta. Un’ultima cosa di cui vorrei parlarti, perché la ritengo molto importante in merito a questo tema, è la scelta delle parole. Noi dobbiamo tenere un linguaggio abbastanza semplice, nel senso che di fronte a un pubblico molto molto vasto hai bisogno di essere capito da tutti. Il motorsport si fonda tanto su un gergo, su parole settoriali, magari anche inglesi o più in generale straniere, e sarebbe buona norma utilizzarle spiegandole, almeno ogni tanto. Non è che ogni volta tu debba dire “Il grip, ovvero l’aderenza, l’attrito della gomma”, però magari affiancare la parola “grip” alla controparte italiana “aderenza” in alcune situazione può essere di grande aiuto. Bisogna essere il più possibile chiari, e anche questo ambito secondo me risente della personalità del singolo telecronista. C’è chi parla per assoluti, chi si affida tanto agli aggettivi, al super di qua o al super di là, ma c’è chi invece magari lo fa meno. Io per esempio tendo a farlo molto poco, tendo a parlare magari in maniera un pochino più complessa rispetto alla media dei telecronisti. È anche vero che sulla Superbike non ho la richiesta di universalità che avrei sulla MotoGP o per la Formula 1: io e Temporali diciamo sempre che la nostra telecrona è un po’ più intellettuale, forse, rispetto alla media. Ma non è perché siamo diversi noi o migliori noi, è perché le richieste sono diverse: quando hai un pubblico molto ampio devi essere il più didascalico possibile.
FT: Hai parlato della tua seconda voce, Max Temporali. Qual è il rapporto con la seconda voce in generale e poi magari anche nello specifico proprio con Temporali?
EV: Parto da un assunto. In questi nove anni di Telecronache ho capito, con enorme sorpresa e anche a dire la verità con un pochino di delusione, che la gente non ha capito che in telecronaca ci sono due persone che hanno due ruoli diversi. Quindi c’è una prima voce che fa il play by play, detta il ritmo della telecronaca e in qualche modo fa da moderatore, e una seconda voce che deve invece intervenire con le osservazioni tecniche: le due cose, come vedi, sono però completamente differenti. La prima voce e la seconda voce hanno un rapporto di complementarità, sono complementari. È fondamentale che si crei chimica tra le due parti, perché nel momento in cui questa c’è le due persone cominciano a capirsi e sanno interpretare i segnali dell’altro. Quando l’altro cala la voce, quando l’altro anche per linguaggio del corpo magari vedi che è pronto a parlare, quando si crea la chimica si creano questi automatismi allora la telecronaca andrà molto bene. Io e Max Temporali ora siamo al sesto anno di telecronache insieme, siamo assolutamente automatizzati. Pensa che nell’anno del Covid ci è capitato di fare delle telecronache da due cabine separate, non comunicanti, senza tra l’altro avere l’uno le immagini della cabina dell’altro. Già all’epoca però eravamo talmente in sintonia da sapere benissimo quando darci la parola a vicenda. Io, per esempio, tengo la telecronaca dalla partenza fino al primo settore o alla metà del primo giro e poi mi zittisco, lascio che sia lui a fare le sue osservazioni e solo dopo riprendo a parlare. Io capisco bene quando lui sta finendo, perché lo sento dalla sua voce che sta chiudendo il suo discorso, e lui fa lo stesso. Siamo una squadra, prima e seconda voce devono essere una squadra. Devono aiutarsi a mai mettersi in difficoltà, quindi – per esempio – mai chiedersi cose a meno che non si sia certi del fatto che l’altro sappia la risposta, e non parlarsi sopra per quanto possibile. L’unico momento in cui è accettato il parlarsi sopra è quando magari c’è una fase molto concitata, dove quindi prima e seconda voce reagiscono insieme. Però anche io sono… per una telecronaca pulita, sono relativamente un fan dell’emozione e del super coinvolgimento, quindi non sono molto per l’urlo insieme e il parlarsi sopra. Forse da questo punto di vista sono un po’ più accademico, un po’ più noioso.
FT: Beh, però dipende dai punti di vista. Alla fine è il pubblico a decidere cosa vada bene o non vada bene…
EV: Hai lanciato un amo. Una cosa che ci tengo a dire è che i pubblici sono talmente diversi da non permettere a nessuno di piacere davvero a tutti. Quando cominci a rivolgerti a un pubblico abbastanza ampio devi purtroppo mettere in conto che non piacerai a tutti. Finché sei su campionati magari di nicchia, dove il pubblico è preparato, probabilmente avrai un consenso buono se non unanime, ma quando il pubblico comincia ad essere più vasto – e giocoforza meno preparato e più legato magari al tifo, più legato alla sensazione – allora a quel punto sarai nemico di qualcuno, pur avendo fatto tutto al meglio e nella maniera più super partes possibile.
FT: Poco fa hai nominato il primo giro. È quello il momento tecnicamente più difficile di una telecronaca oppure no?
EV: Il momento del primo giro è difficile più che altro da un punto di vista teatrale. Nel primo giro succedono tante cose e tu devi tenere conto un pochino di tutto quello che succede, ma anche contemporaneamente riuscire immediatamente a scremare cosa ha senso dire e mettere in risalto e cosa no. Da un punto di vista contenutistico però è forse il più facile di tutti perché, appunto, sono tutti vicini. Per certi versi è molto facile individuare quello che devi dire: parlerai di come è partito questo, di come è partito quello, di chi è primo alla prima curva, di chi tenta un attacco alla seconda. Il primo giro, tra virgolette, è facile. Secondo me è addirittura più facile degli altri, perché una volta che superi l’ostacolo di dover essere enfatico e interpretare, il problema non si pone più. I problemi, piuttosto, emergono nelle fasi stanche della gara: lì puoi ripetere, puoi leggere i tempi, puoi ripetere cose che hai già detto, puoi analizzare quello che vuoi, però a un certo punto finiscono le cose che si possono analizzare. Aggiungo: non è che per forza si debba avere sempre qualcosa da dire. Qui mi collego, per esempio, a discorsi che possono essere fatti su quei pre-gara lunghi ore che spesso non servono a niente perché non c’è sempre bisogno di inventarsi qualcosa da dire. Le cose da dire sono alcune, e diventi ridondante se continui a ripeterle perché poi le riempi di fuffa, no? È un po’ come rimpinzare gli animali da allevamento di mangime solo per renderli grassi. Loro esistono in autonomia, sei tu poi che li riempi di roba perché devi a forza. Il motorsport è simile.
FT: Questo si ricollega anche a quello che mi diceva Marco Nesi, spiegava come il vero problema fosse dato proprio dall’assenza di azione…
EV: In quel caso può subentrare, se ce l’hai, l’inviato. Lui va a parlare, ti porta l’intervista, ti riempe i minuti. Quando non hai l’inviato, figuriamoci poi quando si è alle prese con gare di durata, la situazione può diventare veramente complessa e sei costretto a inventarti la rava e la fava, c’è poco altro da fare. In quei frangenti emerge la preparazione, nel senso che devi comunque avere una pletora di temi di backup da sviscerare. Anche lì, però, non puoi andare su cose che non c’entrano niente. E gli argomenti effettivamente attinenti a quello che sta succedendo non sono sempre tantissimi, quindi il racconto del motosport si dovrà sempre un pochino scontrare con una potenziale povertà di discorsi.
FT: In alcune gare hai detto di avere a disposizione le stesse immagini del pubblico. Come fai ad anticipare lo spettatore e le emozioni dello spettatore comunicando qualcosa che comunque tutti e due vedono nello stesso momento e dallo stesso punto di vista?
EV: L’anticipare lo si fa con l’esperienza e con… delicatezza. L’esperienza, ovvero tutto quello che hai visto nelle prove, nelle gare precedenti, negli anni passati, in tutte le tue esperienze motoristiche fatte nella vita, ti aiuta a leggere le situazioni. Contemporaneamente, quando fai una previsione, la devi fare con garbo e la devi fare con le prove. Se sono sensazioni le si deve inserire con delicatezza, con i guanti bianchi. Io credo che il telecronista si possa esprimere, non sono d’accordo con chi sostiene che il telecronista non possa dare le sue opinioni Il telecronista lo può fare, ma è sempre un discorso di modi: se lo fa in modo garbato, in modo non assoluto, dicendo “Ho la sensazione che potrebbe essere così”, può farlo. Nel caso in cui si abbiano a disposizione i fatti, allora lì si va su questi ultimi. Il telecronista ha l’esperienza e l’occhio clinico per anticipare quello che succede, per esperienza appunto. E poi si può appoggiare alla seconda voce, che essendo un tecnico tendenzialmente ha ulteriore esperienza. Ti dirò una roba molto scientifica che ho raccontato durante un corso che ho tenuto a Imola. Perché la seconda voce è importante che sia un ex atleta? Perché ognuno di noi possiede i cosiddetti neuroni specchio, che non dipendono solamente da quello che facciamo ma anche da quello che vediamo. Nel momento in cui io vedo una persona che ride io avrò la reazione di ridere, perché i miei neuroni specchio replicheranno quello che fa lui. Vedo una persona che gioca a basket, mi viene voglia di giocare a basket perché mi si attivano gli stessi neuroni che si attivano a lui mentre gioca. E allora perché è importante che la seconda voce sia un ex pilota? Perché quando gli si attivano i neuroni dalle cose che vede, lui ha le sensazioni corporee, ritorna a quello che ha fatto lui, quindi nessuno come lui può capire quello che sta succedendo e come si trovano i piloti che lo stanno facendo. Sono parole dello scopritore di neuroni specchio che è il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, non me le sto inventando io. Abbiamo un fondamento scientifico per cui la seconda voce deve essere un tecnico, ed è una cosa stupenda. Meglio di così chi può anticipare o capire cosa sta succedendo? Nessuno.
FT: C’è un consiglio che daresti a un ragazzo che adesso decide di avvicinarsi a quella che è la tua carriera?
EV: Gliene darei sostanzialmente tre. Il primo è fare esperienza, perché chi ti sceglie guarda l’esperienza che hai fatto. Oggi l’accesso all’università è molto ampio, i laureati sono tantissimi e quindi non è più quella la discriminante. Non lo è neppure il voto di laurea, mentre lo è l’esperienza che hai fatto. Puoi avere fatto l’ateneo che vuoi, puoi esserti laureato con 110 e Lode in una triennale o in una magistrale, puoi aver fatto il master, ma se non hai un’esperienza sul campo io continuerò ad avere dei dubbi sul tuo operato. Se tu, magari anche con minore esperienza accademica, ti sei già confrontato con le cose che ti chiederò di fare, allora probabilmente avrò più voglia di fidarmi di te. Questa almeno è l’interpretazione che dà chi sceglie, che dà chi compie le scelte del personale. Questo è il primo consiglio dunque, fare esperienza ancora prima di preoccuparsi dell’istruzione. Il secondo consiglio è essere onnivori, essere assolutamente onnivori. Lo dicevamo prima:, più sei una persona aperta, con interessi, ampia ed empatica – e lo dico considerando fondamentale il ruolo dell’empatia – e più, secondo me, sarai un miglior giornalista. Il terzo consiglio che do è essere se stessi e non cercare di imitare qualcun altro. Perché nel momento in cui imiti uno stile già esistente, lo si nota subito e tu sei quello che sta imitando quello. Non sei, per dire, Edoardo Vercellesi che fa la telecronaca, sei Edoardo Vercellesi che imita Guido Mera, Carlo Vanzini, Rosario Triolo, chiunque. E quindi no, non funziona. La telecronaca è fatta dalla personalità di chi la fa. Ogni telecronista commenta in base alla propria personalità e se commenti con un’altra persona non sei te stesso, non sei spontaneo e alla lunga il castello di carte cade. Fare esperienza sul campo, essere persone onnivore e essere personali, essere se stessi e non imitare mai qualcun altro: queste sono le tre cose che direi.
FT: C’è un qualcosa, un retroscena legato al tuo lavoro che avresti sempre voluto dire ma che nessuno ti ha mai chiesto?
EV: Sì, ed è un discorso molto ampio. Il giornalista, storicamente, è stato una figura che richiamava il rispetto della gente. Una volta c’era relativo accesso ai mezzi di comunicazione: in pochi avevano voce, quindi tendenzialmente chi aveva voce era effettivamente meritevole, valido e veniva reputato come tale. Insomma, era la voce della verità. Una volta si diceva “Lo ha detto la tv, quindi è vero”, pur ammettendo che la tv sia sempre stato il medium meno veritiero. Tempo fa, però, la figura del giornalista e il giornalismo in generale godevano di grande stima. Oggi non è più così perché tutti possono scrivere, tutti possono fare, tutti hanno accesso ai mezzi di informazione, di comunicazione e quindi la differenza tra me e una persona qualsiasi che può prendere magari una telecamera, la registrazione di una gara e fare una cronaca è molto più… labile, ecco. Oggi viene meno il patto di fiducia che dovrebbe esserci tra pubblico e giornalismo. Questa è una cosa che mi brucia molto e mi dispiace molto, perché quando prima dicevamo che non si può piacere a tutti… beh, penso anche che purtroppo e molto spesso il pubblico non sia all’altezza del motorsport che raccontiamo. Una cosa in cui credo è il fatto che il pubblico abbia a sua volta una grande responsabilità nell’educazione, nel racconto, nella percezione, nel vivere il motorsport. Nel momento in cui il pubblico per partito preso diventa abbastanza contrario, allora abbiamo completamente rotto il racconto del motorsport e non possiamo andare più da nessuna parte. Non voglio arrivare a dire che la rovina del motorsport sia il pubblico, perché non è assolutamente così, però a certi tipi di pubblico imputo un discreto analfabetismo funzionale e una certa sordità funzionale. Perché nel momento in cui noi in cabina di commento veniamo tacciati di essere troppo pro Bautista da uno, troppo pro Ducati da un altro, troppo pro Rea, troppo pro Ratzgatlioglu, capisci bene che le cose non coincidono. O l’uno o l’altro, quindi evidentemente il problema non sono io. Dipende da quello che vorreste sentire, da chi tifate, da quello che è in sostanza il vostro approccio al motorsport. Purtroppo quello che mi sento di dire è che il pubblico ogni tanto dovrebbe cercare di essere un po’ più all’altezza del motorsport e del racconto che si cerca di fare. Il racconto del motorsport non è infallibile, molto spesso si deve banalizzare proprio per raggiungere un pubblico ampio, è evidente, è oggettivo, però non è che chi racconta è l’ultima ruota del carro, chi racconta è lì per un motivo e il motivo raramente sono le raccomandazioni o l’incompetenza. Quindi torniamo a stabilire un patto di fiducia, giornalismo e pubblico, torniamo ad avere un rapporto sano tra chi racconta e chi ascolta, e chi ascolta torni ad aprire le orecchie e a lasciare libero il cervello piuttosto che a voler sentire quello che vuole sentire e reagire di conseguenza. Durante l’era dei social sappiamo benissimo che tutto quello che si può dire viene interpretato male, viene frainteso, ma quando viene frainteso per sbaglio può starci, mentre quando viene frainteso per partito preso allora io non ci sto più. Soprattutto, nell’era dei social il diritto di parola si è trasformato in una sorta di dovere di parola e quindi il pubblico ha la smania di parlare a vanvera e non va bene, non va più bene così. Il patto si è rotto e siamo in una situazione di guerriglia oggettiva tra chi racconta e chi dovrebbe recepire ma non vuole recepire per davvero.
FT: Possiamo quindi parlare di una sorta di volontarietà del fraintendimento. Fraintendi non perché tu non abbia capito o non abbia compreso, ma perché parti da un assunto che è opposto al mio e comunque non ti sforzi di trovare quantomeno un punto di contatto…
EV: Il problema è che anche di fronte all’evidenza dei fatti e alla scientificità delle prove, oggi la gente non è interessata, non gliene frega niente. Oggi il racconto del motorsport, purtroppo, in qualche modo è una guerra contro i mulini a vento. È per questo che più passa il tempo e più mi interessa un racconto del motorsport diverso, che riguardi appunto lo storytelling, il documentario, l’analisi a più alto livello. Mi sembra che questo tipo di racconti goda ancora di uno status superiore, che predispone meno al fraintendimento. È un ambito che riceve ancora un po’ più di rispetto, e forse è proprio per questo che mi affascina: sembra di essere in una zona di racconto del motorsport che gode ancora di rispetto e di una maggiore predisposizione da parte del pubblico a non agire contrariamente.
FT: Domanda completamente fuori script. L’avvento e lo sviluppo dei social ha in qualche modo influenzato il tuo modo di fare telecronaca nel corso degli anni?
EV: Io professionalmente nasco già in quest’epoca, perché quando ho cominciato a fare telecronaca nel 2016 venivo da diversi anni di esperienze in un talk show online, dove il pubblico poteva commentare da casa, poteva interagire, intervenire. Sono un po’ figlio dei social da questo punto di vista, sono figlio delle attuali tendenze tecnologiche. Non direi che durante la mia carriera di telecronista ho modificato il mio modo di raccontare in base alle trasformazioni tecnologiche, però c’è una cosa che ho notato studiando: oggi, a differenza che in passato, i social ribaltano completamente la funzione di “agenda setting” dei media. Una volta per “agenda setting” si intendeva il fatto che i media mass media avessero la possibilità di decidere cosa era importante per la gente, quindi la scelta operata dai mass media circa cosa raccontare faceva sì che questi fossero i temi importanti per la gente, dalla propria agenda li portava anche in quella del pubblico. Oggi con i social il rapporto è disintermediato: il pubblico può far sentire la sua voce, può in qualche modo – in modo opposto a quanto accadeva in passato – porre all’agenda dei media le tematiche che reputa importanti e che di conseguenza i media (proprio per cercare il pubblico) andranno a trattare. Faccio un esempio: nel 2022, per circa quattro mesi, Superbike e media di settore hanno parlato della diatriba tra Rinaldi e Bassani per il posto nel team ufficiale Ducati. Poi è stato confermato Rinaldi per il 2023, ma il tema centrale è che il team ufficiale Ducati non ha mai, e dico mai, valutato Axel Bassani per quel posto. Mai. E lo sapevamo tutti. Con il fatto però che il pubblico per mesi diceva Bassani, Bassani, Bassani, con una moto privata fa risultati migliori di Rinaldi eccetera eccetera, per quattro mesi i media di settore hanno picchiato sull’incudine chiedendosi perché Bassani non andasse in ufficiale, se Bassani potesse andare in ufficiale, di qua, di là. Non c’era come tema, ma siccome il pubblico lo chiedeva allora se ne è parlato di fronte alla non esistenza di fatti. Noi in telecronaca cercavamo in qualche modo di essere analitici, non abbiamo mai accostato il nome di Bassani al team ufficiale. Abbiamo sempre detto perché avrebbe potuto avere senso, perché invece non ne avrebbe avuto: abbiamo cercato di mettere un pochino all’interno della cornice per bene i fatti e contemporaneamente mettere un pochino di acqua sul fuoco. I social ribaltano completamente l’agenda setting oggi, e oggi il pubblico può decidere che cosa è importante per un media.