“Ciao Lewis.
Sono io, Nico. E chi altri sennò.
E’ stata una corsa continua per me da quel weekend ad Abu Dhabi. Eppure, tra un volo e l’altro, tra un evento in Malesia ed una premiazione a Stoccarda, ho avuto modo di pensare. Parecchio. E sono arrivato alla conclusione che ti devo delle spiegazioni. A te prima di ogni altro, visto che sei stata la mia metà opposta, lo Yin dello Yang, della mia intera carriera.
Sì, ho deciso di ritirarmi. Ho deciso di ritirarmi dopo averti battuto. Forse dopo averti battuto davvero per la prima volta da quando ho stretto un volante tra le mani e ti ho incontrato sulla mia strada. O meglio, sulla mia pista. E’ vero, anche altre volte mi era capitato di metterti le ruote davanti. Ma stavolta è diverso, è stato diverso, e lo sappiamo entrambi. E non solo perché in palio stavolta non c’era un trofeo di kart ma il Campionato del Mondo di F1, no. Ma perché stavolta, per la prima volta da quando corriamo assieme, sei stato impotente nei miei confronti. Le hai provate tutte, Lewis, come sempre, ma stavolta non è bastato. Sono stato più forte io.
Lottare contro di te è sempre stato esaltante, ma mai facile: perché tanto sei veloce in pista quanto sei spietato fuori. Tu sapevi, da dopo il GP di Suzuka, che la pressione si sarebbe riversata tutta su di me. Tu sapevi che io, solitamente, quel tipo di situazioni non sono abituato a reggerle. E hai fatto qualsiasi cosa fosse in tuo potere per farmi cadere. Ad Abu Dhabi ti ho visto andare lento come non sei mai andato da quando hai posato il piede in un abitacolo di F1 pur di lasciarmi in pasto ai lupi, pur di fuggire libero dopo avermi crudelmente abbandonato al branco rabbioso che ululava alle mie spalle. Ma stavolta non ho ceduto, ho resistito. Sono stato più forte io.
E la colpa della mia resistenza, mio caro Lewis, è solo tua. E’ stato il tuo vincere incessantemente, il tuo essere considerato l’unica stella della Stella, il tuo essere sempre così maledettamente veloce in ogni continente ed in ogni situazione, il tuo saper cogliere i miei punti deboli, che mi ha spinto a fare una stagione come quella che abbiamo appena concluso. Mi hai spinto oltre i miei stessi limiti. Nel 2014, ok, una sconfitta all’ultima gara ho potuto anche accettarla. Ma nel 2015 no. Quello che è successo ad Austin è qualcosa che mi ha segnato profondamente. Lì ho davvero toccato il fondo. Ma sai, come diceva qualcuno, qual è l’unica cosa che si può fare quando si tocca il fondo? Darsi la spinta e risalire. Perché davvero, non ne potevo più.
Veniamo da due mondi completamente diversi Lewis, lo sai bene, e non hai mai avuto alcuna remora a rimarcarlo ogni qualvolta tu ne abbia avuto l’occasione. Non te ne faccio una colpa, anzi. E’ la verità, ed è giusto così. Ricordo ancora quell’intervista che rilasciasti dopo pochi mesi che eravamo la coppia di piloti della Mercedes: ‘Mentre io faticavo a mangiare tre volte al giorno, Nico studiava a Montecarlo mentre le auto di F1 passavano sotto il balcone di una delle sue tante case‘. Non era una frase detta con particolare cattiveria, perché era semplicemente la realtà dei fatti. O perlomeno, era una delle sfaccettature della realtà dei fatti.
Perché è vero Lewis, tu hai sicuramente combattuto più di me per arrivare in Formula 1. Sacrifici economici che io non ho mai dovuto fare. Sacrifici che non hanno fatto altro che accrescere quella fame mostruosa di successi che hai, quella voracità da Leviatano che ti spinge a distruggere record, annichilire nemici, frantumare barriere che in pochi hanno raggiunto. Quella fame che io, invece, forse non ho mai davvero avuto. Sono il figlio di Keke, un Campione del Mondo di F1. Sono cresciuto con il rombo dei motori come ninna-nanna. Era inevitabile che, prima o poi, salissi su un kart. All’inizio era solo un gioco. Poi non lo è stato più.
A volte capita che i figli non abbiano ereditato lo stesso talento paterno. Poteva tranquillamente accadere che nel mio piede destro non ci fosse nulla di così speciale, che nelle mie mani non sentissi nulla quando stringevo un volante, che non mi isolassi dal mondo esterno per trovare me stesso una volta nascosto dietro la visiera. Ma non è stato il mio caso: andavo veloce, parecchio veloce. Avevo lo stesso talento di mio padre. E man mano che andavo avanti, man mano che la passione aumentava, man mano che salivo di categoria, sentivo nascere attorno a me una cosa che più cresceva più mi atterriva: l’aspettativa, Lewis. L’aspettativa.
Sono il figlio di Keke. Sono entrato nel mondo del Motorsport dalla porta principale. Parlavano bene di me, mi descrivevano come un ottimo pilota. C’era tutto, per vincere. E dal momento in cui è apparso chiaro che avevo tutto per vincere, è cambiato qualcosa. Io non ‘potevo’ vincere, io ‘dovevo’ vincere. Non me l’ha mai detto nessuno esplicitamente, non mi è mai stato riferito da nessun’altro, non ho mai avuto sentore di frasi simili da qualcun’altro ancora. Semplicemente era così, e lo capivo. Dagli sguardi, dai commenti, dalle considerazioni. Da tutto. Sono il figlio di Keke. E come Keke aveva vinto un Mondiale, partendo con nulla, dovevo vincerlo io, che ero partito con tutto.
E poi sei riapparso tu, quel ragazzino caraibico con gli incisivi leggermente divaricati che nel frattempo aveva sfiorato il Mondiale di F1 all’esordio ed era riuscito nell’intento al suo secondo tentativo. Forse l’ho sempre saputo, che saresti stato tu la mia fine, nel bene e nel male. Forse l’ho capito sin da quando mi hanno riferito che a Brackley avevano deciso di prendere te, per il dopo Schumacher. Tornavi da me, dopo anni in cui la nostra rivalità era stata latente perché troppo distanti in pista, per farmi capire se potessi davvero essere all’altezza delle aspettative che avevo creato. Eri una Nemesi che faceva capolino di nuovo, e proprio nel momento peggiore. Proprio quando, oltre a tutto quello che avevo già avuto nel corso della mia Carriera, era arrivata anche la macchina perfetta per vincere il Mondiale.
Ho sofferto, Lewis, ho sofferto in maniera indicibile. I tuoi Titoli del 2014 e, come detto prima, soprattutto del 2015 mi stavano appiccicando addosso l’etichetta dell’eterno secondo, del buon pilota destinato ad essere irrimediabilmente offuscato sotto i riflettori della Storia della F1 dall’ombra del fenomeno. Ed è stato a quel punto che ho capito che soltanto se avessi dovuto battere te, che mi stavi annichilendo in quella maniera, avrei trovato le energie necessarie per affrontare una stagione come quella di quest’anno. Una stagione fatta di allenamenti continui, di sessioni al simulatore, di briefing estenuanti, di assenze ingombranti in famiglia. Tutte cose che tu, per dono della natura o per scelta, finora non hai forse mai fatto con la stessa intensità.
La lotta contro di te mi ha prosciugato. Per trovare me stesso, per capire che avrei potuto batterti solo essendo Nico e non fingendo di essere Lewis, ho dato fondo a tutte le energie di cui disponevo. Mentali ancor prima che fisiche. Gli ultimi cinque giri della mia carriera non li dimenticherò mai: le luci dei fari di Yas Marina che illuminavano la tua auto, il tuo casco, le tue strategie mentre dietro di me Sebastian e Max planavano come falchi, con lampi blu e rossi che squarciavano il monotono grigio dell’asfalto visto dai miei specchietti retrovisori. Frammenti di colore che non so per quanto tempo perseguiteranno i miei sogni.
Però alla fine ce l’ho fatta, ho vinto. Ho fatto quello che chiunque si aspettava che io facessi.
Ho cercato subito, una volta preso il trofeo del Campione del Mondo, il nome di mio padre, per urlargli silenziosamente che sì, c’ero riuscito anche io. Ma adesso basta. Ho sacrificato troppe cose, in questi ultimi anni, lungo la strada per il successo: mia moglie, che per un anno intero ha sopperito come meglio ha potuto alla mia assenza in famiglia; mia figlia, della cui presenza ho potuto godere per pochissimo tempo da quando è venuta alla luce. Ancor prima delle Pole, ancor prima delle vittorie, ancor prima dei giri veloci, dei Mondiali, dei punti iridati, per me ci sono loro. Ho dimostrato a me stesso e al mondo che potevo farcela, che anche Nico Rosberg era un pilota capace di vincere il Titolo in F1. Ed è per questo che non ho più niente da chiedere alla F1: il mio sogno, il mio unico obiettivo, la mia ragione di vita sin da quando ho schiacciato il primo pedale dell’acceleratore, è stato raggiunto. So già che, pur volendo, nel 2017 non correrei con la stessa intensità mentale, con la stessa lucidità, con la stessa grinta, con la stessa rabbia. Vinceresti tu Lewis, W08 permettendo. E lo sai anche tu. Ecco perché non credo tu te la sia presa troppo, quando hai saputo che non avresti avuto la possibilità di una rivincita in pista. In cuor tuo, sapevi che una volta vinta la mia battaglia sarei tornato ad essere il pilota veloce al quale però mancava la fame da cannibale del Campione. E a me, arrivare 2° un altro anno, cosa cambierebbe dopo questo 2016? Semplicemente nulla.
Quindi preferisco finirla qui. Con in mente i bagliori dei fuochi d’artificio della notte di Abu Dhabi che rischiarano a giorno l’argento della mia W07 Hybrid mentre il fumo dei miei burnout inghiotte un anno di paure, sacrifici e fatiche. La finisco qui, con la consapevolezza di aver battuto te, uno dei piloti più completi che la storia della F1 ricordi. E di esserci riuscito non risparmiandomi mai, per una lotta che ha segnato a fuoco l’era ibrida e che, per le motivazioni che spingevano ed hanno spinto entrambi, è destinata ad essere ricordata come quelle di molti altri prima di noi
Perché sai, ci hanno paragonato a parecchi grandi del passato per la nostra rivalità. Siamo stati definiti i secondi Lauda e Hunt, i secondi Senna e Prost, i secondi Schumacher e Hakkinen. Ma a me piace pensare che siamo stati qualcosa di diverso. Siamo stati i primi Lewis e Nico.
E sono orgoglioso di ciò.
Grazie di tutto,
Nico.”